Luci dall’Africa

La presenza dell’Opus Dei in Africa attraverso piccole storie di carità e solidarietà. Nel ricordo di Margaret Ogola, una donna keniana che come medico ha speso la vita per combattere l’Aids e a favore della famiglia.

Un ricercatore dell’ospedale Monkole a Kinshasa.

Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo. Nella periferia meridionale della città il centro medico Monkole lo conoscono un po’ tutti. Perché a migliaia sono stati curati o hanno beneficiato della sua azione di educazione sanitaria, dal 1991 a oggi. Un ospedale così ben tenuto che alcuni pensavano fosse un luogo “per ricchi”. Monkole è un’iniziativa di persone dell’Opus Dei, così come la Scuola infermieristica che forma il personale sanitario di sei ospedali. I giovani congolesi che la frequentano stanno contribuendo alla crescita del settore sanitario del loro Paese.

Dal Congo al Kenya, e alla sua capitale Nairobi. Qui, dal 1961, il nome Strathmore è sinonimo di cultura, formazione, emancipazione. Questa struttura educativa copre attualmente l’intero ciclo scolastico, dalle elementari all’università. Generazioni di ragazzi hanno avuto la possibilità di acquisirvi una valida preparazione culturale e professionale, unita a una profonda formazione cristiana. Negli anni Sessanta la città di Nairobi era suddivisa in quartieri secondo un rigido criterio razziale. San Josemaría Escrivá de Balaguer chiese alle persone che progettavano quest’iniziativa che, per quanto radicate fossero le usanze, il centro avesse un carattere interrazziale. Una cosa che in Kenya non si era mai vista.

Per san Josemaría il servizio agli altri non poteva prescindere dall’attenzione alle due dimensioni dell’uomo: corporale e spirituale. Da qui il grande impegno per l’evangelizzazione, la formazione cristiana, e poi per le iniziative sociali come insegnare un lavoro, valorizzare la donna, curare i malati o gli anziani.

Nei primi tempi del suo apostolato egli era solito attraversare Madrid a piedi per visitare malati nei quartieri periferici, assistere moribondi e senzatetto, insegnare il catechismo ai bambini. E lì portava i giovani che seguiva spiritualmente, per aiutarli, attraverso i servizi più umili prestati agli “ultimi”, a cogliere il senso della sequela di Cristo. Anni dopo, incoraggiati da san Josemaría, i membri dell’Opera crearono, sempre a Madrid, con la collaborazione della popolazione locale, il centro professionale Tajamar, che ha avviato al lavoro più di 20mila giovani. Lo stesso accadde nella periferia di Roma con il Centro Elis, inaugurato nel 1965 da Paolo VI. Contemporaneamente, in Messico, una vecchia hacienda zuccheriera veniva trasformata in un centro di formazione per i contadini di tutto lo Stato di Morelos.

Un’infermiera dell’Issi, la scuola per infermiere adiacente all’ospedale Monkole a Kinshasa.

Anche in Africa il lavoro apostolico dell’Opus Dei si fonda sullo stesso presupposto: l’Opera aiuta ciascuno a riscoprire il suo rapporto con Dio e a viverlo nella vita di tutti i giorni, e la dimensione del lavoro rientra pienamente in questo rapporto.

Secondo questo spirito è stato creato il progetto Harambee Africa International, una onlus nata nel 2002 – l’anno della canonizzazione di Josemaría Escrivá – per promuovere progetti di sviluppo che abbiano come protagonisti gli africani. Harambee sostiene in 14 Paesi del continente una trentina di progetti che spaziano dalla formazione per contadini e artigiani a corsi per la preparazione professionale della donna, fino a percorsi educativi per il reinserimento sociale di ex detenuti.

Il 9 settembre scorso la onlus Harambee ha promosso a Roma, presso la Pontificia Università della Santa Croce, un incontro internazionale per giovani imprenditori africani di quattro Paesi (Nigeria, Ghana, Burkina Faso, Tunisia) e rappresentanti di alcune organizzazioni del settore pubblico e privato in Africa, al fine di esplorare le opportunità di crescita dell’imprenditoria africana come via per lo sviluppo del continente. L’obiettivo di incontri come questo è che i giovani imprenditori africani diano vita a progetti concreti nel continente, così come i medici, gli ingegneri, gli economisti possano partecipare allo sviluppo dei loro Paesi. Perché realtà come Monkole e Strathmore possano moltiplicarsi.

Margaret Ogola: una vita per Dio e per l’Africa

Ma tutto questo sarebbe impossibile se non ci fossero dei testimoni, come Margaret Ogola, una keniana molto nota in patria, un medico che si spendeva quotidianamente per il bene dei malati di Aids e il rafforzamento della famiglia in Africa. La dottoressa aveva lavorato alla Strathmore University e faceva parte dell’Opus Dei. Margaret è morta alla fine di settembre dopo una lunga malattia, ed è stata una grande promotrice di Harambee.

La dottoressa Margaret Ogola mentre visita un ragazzo.

Molte persone, tra cui un’intera generazione di studenti del Kenya, l’hanno conosciuta anche attraverso i suoi romanzi, il più famoso dei quali, Il fiume e la sorgente, nel 1995 ha vinto il premio Writer Commonwealth per il miglior libro della regione africana, ed è stato tradotto in Italia dalle Edizioni San Paolo nel 1997.

Per la maggior parte della sua vita professionale Margaret si è presa cura dei poveri, in particolar modo dei malati di Aids. Dal 1994 è stata direttore medico dell’Hospice del Cottolengo per l’Aids e gli orfani di Hiv, e nel 2004-2005 ha giocato un ruolo fondamentale nella creazione della Clinica Hiv/Aids Sos, che cura donne, uomini e bambini dei bassifondi di Nairobi.

Allo stesso tempo era moglie e madre di cinque figli e di due orfani accolti nella sua famiglia: «Così», disse una volta, «anche se sono oltre l’età fertile la mia famiglia continua a crescere! E questa è la storia di tutti in Kenya oggi: si hanno orfani di cui ci si prende cura perché non hanno nessun altro a cui rivolgersi».

Oltre al suo lavoro di medico, Margaret dal 1994 al 1998 è stata direttore esecutivo dell’associazione Family Life Counseling del Kenya, e dal 1998 al 2002 segretario esecutivo nazionale per la salute e la vita familiare della Conferenza episcopale keniana, coordinando l’amministrazione di oltre 430 strutture sanitarie di assistenza gestite dalla Chiesa cattolica in Kenya. Nel 2002 è diventata coordinatore per il Kenya di Haci (Hope for African Children Initiative), un’associazione che coinvolge Care, Save the Children, l’Associazione per le donne e l’Aids, World Vision e altre ong internazionali.

Nella comunità internazionale Margaret Ogola si è distinta come un campione della dignità umana, che lei vedeva come appartenente nella stessa misura a ogni uomo, donna e bambino – compreso il nascituro. Non era femminista in senso politically correct, cosa che avrebbe forse favorito la sua ascesa a un ruolo di primo piano nelle Nazioni Unite, ma era ugualmente una forte sostenitrice del potenziamento del ruolo delle donne. Alla quarta Conferenza mondiale dell’Onu sulle donne, tenutasi a Pechino nel 1995, poté dire con grande serenità e fermezza che «la donna è il cuore della famiglia, e la famiglia è la pietra angolare della società. La donna è un concentrato di creatività, sviluppo e pace. La cooperazione tra uomini e donne è pertanto necessaria perché una donna porta una complementarità uguale e potente per la comune condizione umana. Alle donne è stata affidata la capacità di trasmettere la vita che è il dono più prezioso che un corpo possa dare o ricevere. Senza vita nessun altro bene è possibile». Attaccò inoltre i dogmi intoccabili di organizzazioni internazionali per lo sviluppo, insistendo sulla «disponibilità di metodi economici e sicuri di distanziamento delle nascite, come la pianificazione familiare naturale», e chiedendo il riconoscimento del «ruolo insostituibile dei genitori e della famiglia nell’educazione e nella formazione dei bambini in materia di sessualità».

La dottoressa Margaret Ogola durante la presentazione di Harambee, a Roma, il 4 ottobre 2002.

Nel suo impegno quotidiano per i malati di Aids, insisteva sul fatto che la povertà – e, di conseguenza, la piaga della prostituzione – era la principale causa della sua diffusione tra le donne: «Pertanto», diceva, «i programmi di prevenzione dovrebbero mettere le donne al centro, non solo per aiutarle a dire “no”, ma anche per offrire loro delle alternative quando dicono “no”. Questo significa attenzione alla povertà nel nostro Paese. Il 57 per cento dei keniani vive con meno di un dollaro al giorno. Ma la maggior parte dei poveri è costituita da donne, e soprattutto donne giovani, perché socialmente non sono considerate uguali agli uomini e quindi hanno minore accesso all’istruzione e alle risorse a ogni livello. La loro situazione deve essere affrontata in modo olistico e integrato: non solo promuovere i valori della famiglia, ma dar loro anche la possibilità di fare una vita diversa dalla prostituzione, in cui spesso finiscono a causa della povertà».

Che cosa poteva sostenere la dottoressa Ogola nel suo lavoro instancabile se non la sua fede cattolica? A essa doveva anche, senza dubbio, il suo grande ottimismo sull’Africa e le sue famiglie. In un’intervista del 2005 diceva: «Sì, sono molto fiduciosa, considerando tutto quello che è successo negli ultimi dieci anni, cioè la consapevolezza che esiste oggi nel mondo circa la situazione dell’Africa e l’impatto dell’Aids, la buona volontà di molti, i fondi che cominciano ad arrivare non solo per distribuire preservativi, ma anche per offrire assistenza e sostegno, dare aiuto ai bambini affamati, fornire gli indumenti in modo che possano almeno andare a scuola in modo decente come gli altri. Ecco, tutte queste cose stanno cominciando ad accadere. E quando c’è una convergenza di intenti, l’ingegno umano può sicuramente sconfiggere anche un virus come l’Aids, proprio come abbiamo sconfitto il vaiolo e la poliomielite. Quindi, ripeto, sono piena di speranza».

L’ultima parola dovrebbe andare a qualcuno che la conosceva ed era presente al suo funerale affollato presso la Basilica della Sacra Famiglia a Nairobi lo scorso settembre: «È stata giorno dopo giorno sempre più vicina a Dio», ci è stato raccontato: «Il sacerdote che l’assisteva ha detto che voleva fare ogni cosa, grande o piccola, non importa quanto fosse impegnativa, per amore. Altre persone – familiari, amici, colleghi e funzionari di governo – hanno testimoniato che era una persona di grande talento e determinazione, una lavoratrice instancabile e sempre alla ricerca del modo migliore per essere al servizio degli altri nella sua professione, in particolare nella cura di bambini rimasti orfani a causa dell’Aids, che erano la sua preoccupazione principale come pediatra. Aveva per loro un grande amore e ha combattuto per il rispetto della dignità della vita umana. La fede e la fiducia in Dio hanno caratterizzato tutta la sua vita».

    Giovanni Ricciardi // 30 Giorni