Il più grande ‘slum’ dell’Africa

Tredici anni fa in Kenya abbiamo cominciato a cercare un terreno sul quale costruire un centro di Formazione Professionale (Eastlands College of Technology). Dato che la maggioranza delle persone che se ne occupavano abitavano nel quartiere di Nairobi chiamato Eastlands, le ricerche si concentrarono in quella zona della città. Mose e le persone che lo aiutavano in questa iniziativa, nutrivano il grande sogno di rendere più degna la situazione lavorativa e umana dei più poveri di quella società.

Mose, un professore del Eastlands College of Technology, lotta da anni perché i bambini della baraccopoli più grande dell'Africa abbiano un futuro.

Trovarono il terreno. Ci vollero sei anni per chiarire tutti gli aspetti legali (era del tutto abituale l’inganno nel possesso della terra, e fin quando non è tutto chiarito è meglio non costruire perché altrimenti ti soffocano aumentando il prezzo).

Quando finalmente tutte le carte furono firmate, i nuovi proprietari decisero di recintare il terreno. Per far questo pensarono di chiedere aiuto ad alcuni ragazzi che vagabondavano in zona: per ogni palo sistemato avrebbero guadagnato un po’ di denaro. Mose chiuse l’accordo con un sorriso e una stretta di mano.

«Tu sei uno di noi! Ci hai dato la mano!»

L’espressione di sorpresa dei bambini (tali erano per età) lo colpì. «Tu sei uno di noi! Ci hai dato la mano! Non sai che la gente ci evita, ci teme, pensa che siamo animali?». E cominciarono a raccontargli che vivevano per la strada, che raramente riuscivano a mangiare ogni giorno e con cibo poco nutriente, che per ingannare la fame si servivano della colla (con il subidón si sentivano sazi...).

― «Ma voi non siete animali! Anch’io certe volte ho fame, o posso essere triste, o allegro!».

― «Come? Dici sul serio? Siamo come gli altri?». È così che Mose fece conoscenza dei suoi ‘figli’.

* * *

― «Mamma, ti dispiacerebbe accogliere in casa i miei figli?». In un primo momento lei si stupì: «Non mi avevi detto che volevi restare celibe per poter dedicare tutto il tuo tempo ad aiutare gli altri? E ora mi dici questo, e anche al plurale! A che ti sei dedicato?», mi riferisce Mose come se sua madre fosse all’altro capo del telefono. ― «Tranquilla; ora ti spiego...».

Lei, madre di undici figli, vedova, con una casetta a metà di una collina scoscesa nella quale vive da sola con una mucca, due capre e due scrofe..., gli disse: avanti, c’è posto nella stanza di sotto.

― «Nella nostra cultura un bambino non ha solamente suo padre e sua madre; tutti possono prendersi cura di lui. Mia madre, e io stesso, avevamo le idee chiare: Lasciarli per la strada? – le dissi –; così che in pochi anni muoiano o diventino criminali? All’inizio erano in due. Condividevano la stanza; ma poi ne apparvero altri: tutti nella stessa stanza. Il momento di maggior traffico fu quando nella stanza dormivano in 20. Io, che l’ho vista, assicuro che è un po’ più grande della stanza che io uso in Kenia e molto più piccola di quella che ho a Bilbao. 20? Ora sono 8, e altri stanno in altre case di persone che hanno deciso di dare una mano».

― «In Kenia il problema non è che due o tre persone si dividano un letto: uno davanti, un altro in fondo, un altro davanti… Ricordo che quando ci fu il funerale di mio padre dormimmo in 4 nella parte superiore di un letto a castello. E riuscimmo a dormire! Sotto c’erano le donne, altre 4. Si può arrivare a 6. Ad ogni modo, con i ragazzi siamo riusciti a fare in modo che ognuno avesse il suo posto, che certe volte può essere il pavimento: in Africa non è facile entrare in una stanza quando si sta dormendo».

― «Ora mia madre si prende cura di otto ragazzi. Durante il corso precedente, di undici. Certi vicini ne hanno tre e altri uno. In questi sei anni abbiamo badato – ed educato – a più di cento ragazzi. Nel corso precedente, tra quelli che si educano in campagna e quelli di cui ci prendiamo cura a Nairobi, 70 frequentavano la scuola».

Javier, che scrive quest'articolo, in uno degli 'slums' di Nairobi.

Se frequentano la scuola, si educano. E grazie all’educazione, avranno un futuro che eviterà loro di dormire per la strada

Gli faccio qualche domanda sulle priorità: di che cosa hanno bisogno? Mi risponde che questo è il grande dilemma. Certe volte sembra che sia più urgente dar loro un tetto – cosa che è urgente – ma forse è meglio dare la priorità all’educazione, perché con il primo non dai loro la capacità di risolvere i problemi vitali. Per questo motivo la grande priorità è il pagamento della tassa di iscrizione alla scuola. Altrimenti non sono ammessi e senza educazione non avranno futuro. Perciò preferiscono dormire per la strada. È proprio per questo motivo che sua madre s’inventò un’altra soluzione: le case di accoglienza.

― «Quanto costa l’iscrizione?».

― «240.000 scellini l’anno, pari a circa 220 €, nella scuola secondaria. Nella primaria, che in teoria è obbligatoria e arriva fino ai dodici anni, costa circa 300 scellini – 3 euro – al mese. La prima cifra è irraggiungibile non soltanto per i miei ragazzi, ma per molti di coloro che abitano negli slums, le baraccopoli».

― «Altre spese?».

― «Loro non posseggono nulla. Il pane costa ogni giorno 50 scellini, come il latte: con un euro al giorno si potrebbe dare loro da mangiare. Tieni presente che io stesso mangiavo carne due volte l’anno e che la mia prima torta di compleanno l’ho avuta a 25 anni, alla festa che fecero per me i miei amici di Nairobi».

Non ti rendi conto, figlio mio, che hanno fame?

E mi racconta una storia di torte: quattro anni fa pensò che i ragazzi dovessero avere una festa il giorno di Natale. Altrimenti neanche si sarebbero accorti del giorno solenne. Ne parlò con sua madre. «Quanti ne aspetti?», chiese la paziente signora. «I ragazzi..., qualcuno delle fattorie vicine. Una ventina?», rispose. Ne arrivarono 50 fin dalle prime ore del mattino e sua madre dovette andare al negozio, chiedere aiuto alle vicine e lavorare tantissimo per poter offrire loro qualcosa. Però non fu possibile preparare un’altra torta (l’unica la portò Mose da Nairobi: l’aveva chiesta ai professori di Strathmore University). «Però se tagli fette sottili, molto sottili, dove c’era una piccola fetta per 20 ce n’è una (più piccola) per 50. E tutti l’assaggiarono». L’anno successivo vennero in 150. L’altro ancora, in 180..., e la cosa continuerà a crescere.

― «Ora organizziamo giochi, con i quali si divertono moltissimo, e cerchiamo di dar loro qualche premio. Il primo anno portammo delle biro in modo che ognuno avesse un regalo di Natale. Mia madre mi chiamò: “Non ti rendi conto, figlio mio, che hanno fame? Meno biro e più cibo, per favore”. L’anno scorso sono riuscito ad avere una gran quantità di palline da tennis. Erano usate, ma loro neppure se ne accorsero».

― «Qualche situazione più drammatica? Penso che molti di questi ragazzi – da tanto tempo soli, per la strada – avrebbero bisogno di un’assistenza psicologica, no?».

― «La verità è che non ci ho mai pensato. Forse hai ragione tu. L’episodio più drammatico che mi è capitato è stato quello di una ragazza che viveva per la strada. Aveva tre figli, il più piccolo di poche settimane, e nessuno la sosteneva. Un uomo si offrì di farla mangiare in cambio di certi favori. Dopo un mese l’abbandonò. Lei cominciò a sentire qualcosa di strano nello stomaco. pensava di avere un tumore, perché si sentiva molto malata e debole. L’accompagnai in ospedale. Era incinta di quell’uomo che l’aveva abbandonata. In meno di 10 mesi ebbe due figli. L’ultimo nacque molto debole e morì subito. Lei morì poco dopo. Dato che i bambini erano molto piccoli, lo Stato se ne fece carico; ma quando compiono 5 anni, se nessuno li accoglie, invariabilmente finiscono per la strada».

Un’altra volta uno di questi ragazzi mi ha raccontato che sua sorella si stava prostituendo perché in casa potessero mangiare. Io che potevo fare? Ho cercato dei soldi per darli in prestito alla madre in modo che aprisse un piccolo negozio prima che la figlia finisse di distruggere la propria vita tra gli indesiderabili dello ‘slum’.

Mose, che ha dato inizio al "Karibu Sana".

Mi mostra alcune fotografie: vicino alla Eastlands Technical School, l’istituzione educativa che si sta portando avanti con l’impegno di molte persone (e anche con denaro proveniente dalla Spagna e dalla Comunità Europea, oltre che da generosi donativi di keniani, benestanti e non). Se piove, il ruscello diventa un fiume. Alcuni ragazzi (di dodici, quindici anni) si fanno il bagno nudi in quest’acqua che trascina il fango e l’immondizia della zona. È l’occasione che hanno i bambini di strada per lavarsi e per divertirsi un poco. In lontananza passano le auto, nel viale i passanti.

― «Chi ti aiuta, Mose?».

― «All’inizio, alcune signore di Singapore. Ora ti racconto: è venuto con loro Fr. Connor, un sacerdote irlandese, che vive in Kenia ma che prima è stato per anni nelle Filippine e a Singapore. In quel momento stavamo dando da mangiare (il ‘lunch’) a 25 bambini. Le signore ci hanno dato 100 dollari per comprare il cibo e perché costruissimo loro una baracca. Ma io ho pensato: un tetto o l’educazione? E ho optato per la seconda: ho pagato l’iscrizione alla scuola di tutti quelli che ho potuto. A che serve un tetto, se poi s’indirizzano alla delinquenza?

«Quando è venuto la volta successiva, Fr. Connor ha voluto vedere la casa. Io gli ho mostrato i libri dei ragazzi; e ha capito. Poi ne ha parlato alle signore e da allora mi mandano ogni anno una bella somma di denaro. Ancora: un cecoslovacco che è venuto a dare lezioni a Strathmore University mi manda ogni anno 300.000 scellini che raggranella tra i suoi amici. Poi ci sono persone del Kenia, che a volte possono mandare soltanto 5.000 o 1.000 scellini (45 o 9 euro), oppure indumenti».

Sette ragazzi sono arrivati all’Università

Gli chiedo quali sono le necessità. Mi dice che sette di questi giovani che un tempo vivevano per la strada stanno studiando all’università. Di essi, cinque hanno bisogno di 9.000 scellini al mese, e gli altri due 5.000, per l’alloggio (rispettivamente, 80 e 45 euro).

I pasti sono a parte. La scelta diventa difficile quando bisogna scegliere tra mangiare o pagare le fatture. Per ciò che riguarda il vestiario, al momento gli studenti indossano quello che riescono a raccogliere (questo dà luogo a mescolanze incredibili, proprie di una situazione di miseria: il giorno in cui sono andato a far loro visita in campagna, un ragazzo di 14 anni indossava il panciotto di un abito a tre pezzi, una camicia giallognola, un pantalone grigio e un paio di ciabatte che ormai da mesi avevano smesso quasi completamente la loro funzione di calzatura).

"Preparando" la colazione.

Il cibo, se stanno in campagna, proviene dalle terre della madre di Mose, dalla vacca il latte e dalla nidiata delle due scrofe, forse, un po’ di carne... Le iscrizioni a scuola, i viaggi per poter vedere ogni tanto i parenti, i quaderni, i libri, le matite, il combustibile per le lampade, la biancheria da letto, la carta igienica, ecc., ecc., dai donativi che forse arriveranno.

Però è ancora più importante domandarsi che fare dopo aver terminato la scuola. Alcuni, borsisti, all’università. Altri dovranno mettersi a lavorare. Ma per far questo occorrono aiuti. L’idea di Mose non è che vivano di donativi, ma che sviluppino l’iniziativa che ritengono più opportuna, sostenuti dai micro-crediti.

In parte, nel Eastlands College of Technology si dedicano a questo: offrono corsi per adulti nei quali si insegnano i rudimenti della contabilità con i quali gestire una di quelle bancarelle che si vedono nei mercati o ai margini delle strade: galline e uova, frutta, indumenti sportivi, scarpe, oggetti elettrici… Questi crediti vengono assegnati senza interessi e devono essere restituiti in breve tempo, di modo che se il beneficiario riesce a far sì che il suo negozio prosperi e a mettere da parte quello che deve (un po’ per volta; non devono restituirlo tutto in una volta, però, questo sì, debbono sentire il peso della responsabilità ed esercitare l’occhio alla corretta gestione – così imparano a non spendere quello che ancora non hanno e a pensare a medio e a lungo termine –) verrà loro concesso un prestito maggiore, iniziando così un processo di fuga dalla povertà che non dovrà arrestarsi.

Di che cosa hanno bisogno? Probabilmente, del capitale per fare un primo investimento (acquisto di prodotti, affitto del locale) o i soldi per comprare un veicolo che serva da posto di lavoro: le moto chiamate ‘bora bora’, per esempio, quelle che penetrano fra gli ingorghi o fino al cuore più recondito dello ‘slum’ di Kibera.

Mi dice che noi che concediamo il prestito potremmo concederlo per un anno e se poi vogliamo ci verrà restituito (la percentuale delle restituzioni, finora, è stata del 94%).

Puoi anche scegliere di prestare una data somma e, dopo un anno, donarla definitivamente, in modo da poter contare su un capitale fisso per prestiti, che si possa reinvestire in continuazione. Di quali somme stiamo parlando? Una moto costa 100.000 scellini (circa mille euro). I prestiti, dipendendo dal tipo di affare, sono di 30.000, 50.000 o 100.000 scellini.

Di solito si comincia con la somma più bassa, un po’ per volta la si va restituendo, e alla fine (al massimo in sei mesi, restituendo 500 scellini – 4,5€ – alla settimana, o anche meno), si passa al prestito successivo. Il beneficiario, naturalmente, deve presentare un progetto commerciale.

Può anche imparare un mestiere, magari nella stessa Eastland Technical School, dove si insegna elettronica, installazione di pannelli solari, contabilità, saldatura e ogni altra specializzazione indispensabile per poter far parte di una ditta di costruzioni.

― «Certe volte i mezzi possono essere più rustici. Per esempio, sono riuscito ad avere 16 capre. Le ho distribuite fra i vicini di mia madre con la condizione che ce le restituissero quando volevamo. Così essi rimanevano con le caprette neonate e noi davamo in prestito la capra a un’altra persona. Di quelli che nascevano dovevano darci soltanto i maschi, grazie ai quali ogni tanto potevano mangiare un po’ di carne. Non sai quanto è aumentato il numero di capre a Muranga!».

Il sogno di Duncan

Alla fine della nostra chiacchierata Mose mi presenta un giovane di venti anni. È Duncan Iguru, uno dei primi beneficiari della pazza idea di quest’uomo. Duncan è di Muranga, il paese dove vivono i ragazzi: uno di quei vicini che non hanno i soldi per pagare l’iscrizione alla scuola secondaria.

Mose e Duncan.

I suoi genitori sono fattori: non avevano nessuna possibilità di finanziarlo, né di rivolgersi a una banca, perché non accetta thé o zucchero in pagamento. Mose si assunse la responsabilità di tutto. Poi lo invitò a concorrere a una borsa di studio offerta da una banca per studiare a Strathmore University. La borsa di studio era del 100%, circa 3.000 euro l’anno, in grado di coprire i costi di alloggio e iscrizione. Se non ci fosse stato Mose, Duncan sarebbe ancora oggi nel suo paese, a coltivare the come il fratello maggiore. Ora s’è messo in mente di aprire una propria ditta di Tecnologia Informatica, il suo campo di studi. Ci riuscirà? Andrà tutto bene? Dove studieranno i suoi figli? E i suoi nipoti? Salvare una vita vuol dire salvare il mondo intero.

Altre informazioni per collaborare con il progetto Karibu Sana.