Centro Medico Monkole, i pensionati “in azione”

Inés Dorronsoro, Ramón Díaz e Antonio Medarde, messi insieme e sommando i dati, hanno 18 figli, 17 nipoti e più di un secolo di anni da ricercatori. Potrebbero essere tre pacifici pensionati, e invece hanno barattato la lettura e le passeggiate con un progetto nel cuore dell’Africa.

Presa di contatto. Antonio Medarde, Ramón Díaz e Inés Dorronsoro ascoltano le spiegazioni del personale di Monkole.

Il centro medico Monkole ha cominciato a funzionare nel 1991 come modesto ambulatorio. Oggi dispone di 46 posti letto e offre servizi di pediatria, medicina interna e chirurgia. Inés Dorronsoro, Ramón Díaz e Antonio Medarde si sono dichiarati pronti a studiare la possibilità di organizzarvi un laboratorio di Microbiologia. Sono tornati contentissimi dal loro viaggio in Africa.

“Se uno guarda l’Europa e poi guarda l’Africa pensa: Bisogna aiutarli, ad ogni costo”. Lo ha detto Ramón Díaz, medico microbiologo della Clinica Universitaria di Navarra, da poco in pensione ed esperto di brucellosi, quando la Organizzazione Navarrina per l’Aiuto tra i Popoli (ONAY) gli ha proposto di partire per la Repubblica Democratica del Congo. Scopo del viaggio era quello di progettare un Laboratorio di Microbiologia e una Banca del sangue in vista dell’ampliamento dell’Ospedale di Monkole, previsto per il 2011. L’idea l’ha avuta la figlia di Ramón, la quale, venuta a conoscenza della necessità di disporre di persone qualificate e con tempo libero, lo ha proposto ai suoi genitori.

Inés Dorronsoro, anch’essa medico microbiologa della Clinica di Navarra, pensionata e moglie di Ramón, non ha esitato ad accettare il progetto. “Mi hanno detto che si tratta di organizzare un altro laboratorio”, spiega, e aggiunge: “Il giorno in cui sono andata in pensione, la prima rivista scientifica che ho ricevuto l’ho buttata nella pattumiera senza neppure aprirla. Sentivo una gioia immensa. Eppure, quando mi hanno fatto la proposta, mi è sembrato un privilegio poter andare in Africa e insegnare tutto quello che so”.

Antonio Medarde, medico ematologo e capo-servizio della Banca del sangue della Navarra, da poco in pensione, è stato il terzo del gruppo partito per il Congo.

Tutti e tre sono genitori di famiglie numerose: Inés e Ramón hanno dieci figli e cinque nipoti; Antonio ha otto figli e, come dice lui stesso, “dodici e rotti nipoti, perché altri due nasceranno tra la primavera e l’estate”. Hanno dedicato più di trent’anni alla Medicina e l’hanno dovuta conciliare con la cura, l’attenzione e l’educazione dei figli. E ora che potrebbero starsene tranquilli a riposare, hanno deciso di dedicare il loro tempo a trasmettere esperienza a quelli che più ne hanno bisogno. Non ci hanno pensato due volte. Hanno accettato la proposta e, dopo un lungo viaggio in aereo, sono arrivati in Congo.

Antonio Medarde ha donato sangue all'Ospedale di Monkole durante la sua permanenza lì.

Per undici giorni i tre medici hanno potuto rendersi conto della situazione del paese – della mancanza di formazione, di risorse economiche e di infrastrutture -, di Monkole e del laboratorio dell’ospedale. Il loro primo lavoro è stato quello di fare una valutazione. Hanno constatato in quali condizioni i tecnici devono compiere il loro lavoro e hanno studiato come migliorare il rendimento con i mezzi disponibili, nella maggioranza dei casi manuali. Poi Inés spiega: “Meno male che siamo arrivati pieni di entusiasmo e con moltissime possibilità di fare qualcosa per loro, di insegnare e di migliorare il loro modo di lavorare”.

I tre medici hanno preso alloggio in un appartamento interno all’Ospedale di Monkole e si sono poi spostati nei vari laboratori e ospedali di Kinshasa, la capitale del Congo. Inés dice che lì esistono due tipi di medicina: quella tradizionale, basata sugli “stregoni”, e la Medicina moderna.

 

La doppia opportunità che offrono i pensionati

L’organizzazione ONAY ha scoperto nei medici in pensione un’ottima opportunità per dare formazione e trasmettere esperienza al Centro di Monkole. Se l’Ospedale manda una persona a formarsi in Europa, può darsi che questa trovi migliori possibilità di lavoro e non ritorni, o, se ritorna, apra una propria clinica. Dà migliori risultati portare nel Congo una persona esperta che formi un certo numero di persone che poi non andranno via dall’Africa. Ancora meglio è se a istruirli è un pensionato che abbia tempo disponibile e molta esperienza alle spalle. “Inoltre – sottolinea Antonio –, noi abbiamo vissuto in Spagna – quando abbiamo cominciato – un livello di Medicina di trent’anni fa, che meglio si può paragonare alla realtà di questo paese”. Non si possono applicare i protocolli e i metodi dell’Occidente perché a Kinshasa l’elettricità manca con incredibile facilità, in molti posti l’acqua non è potabile e può darsi che l’assistenza tecnica si trovi a novemila chilometri di distanza.

L’esperienza professionale vissuta in Africa li ha indubbiamente colpiti, ma molto di più quella umana. Dopo essere stati nella Repubblica Democratica del Congo raccontano che la situazione del paese, dal punto di vista umano, è caotica e drammatica. Antonio, durante la sua breve sosta nel paese africano, ha scattato più di trecento fotografie. Mostrano la reale quotidianità di Kinshasa, che conta circa dieci milioni di abitanti. La lingua ufficiale è il francese, anche se, a seconda delle comunità, si parla anche in lingala, swahili, tchiluba o kikongo. Secondo i dati pubblicati in Spagna dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione, il 52% della popolazione è cattolica, oltre a una piccola comunità di protestanti e musulmani. Molti abitanti seguono le credenze tradizionali del paese, soprattutto animiste e kimbansuiste.

La maggioranza delle famiglie abita in baracche di paglia con tetti di tessuto. Non possono permettersi neppure pareti di mattoni. Molti edifici sono abbandonati o comunque non hanno alcuna manutenzione.

La popolazione non ha diritto all’assistenza medica gratuita. Devono pagarsi tutto. Per questo motivo i tre medici insistono sull’importanza di valutare bene ogni analisi che si prescrive ai pazienti, perché questo comporta un considerevole incremento dei costi. Inés assicura che qualcosa di simile accade con l’educazione: “Alcuni genitori che hanno quattro figli mandano a scuola per un anno i due figli più grandi e l’anno dopo gli altri due. Oppure ci hanno raccontato che alcuni bambini vanno a scuola il primo trimestre, e poi improvvisamente scompaiono e non ritornano più. Questo avviene perché a metà anno il padre resta senza soldi e quel poco che ha lo riserva al cibo”.

È un paese con molti paradossi. Antonio ne racconta uno: “Per esempio, ci ha colpito il fatto che un posto così verde non producesse mele e fossero costretti a importarle dal Sudafrica”. La maggioranza dei prodotti viene importata, e con questo il prezzo aumenta considerevolmente. Ramón afferma che una bottiglia di un prodotto chimico liquido che in Spagna costa un euro, nel Congo costa venticinque euro. Dal momento in cui il Governo concede il permesso di importazione fino a che arriva in laboratorio passa attraverso una serie di intermediari che devono guadagnarci sopra. “Così – dice -, quando il prodotto arriva a te, ha un prezzo esagerato”. E Antonio aggiunge: “Che si può fare per questa gente? Sono delinquenti? No. Semplicemente, li pagano tanto poco che devono guadagnarsi da vivere come possono”.

 

Tecniche di scarsa utilità

Una delle realtà che hanno potuto constatare i tre sanitari è che i medici di Kinshasa dimostrano una fiducia assai scarsa nei risultati di laboratorio, che sono veramente ben poco affidabili. Per esempio, le tecniche impiegate per analizzare la tubercolosi hanno scarsissimo valore e consentono di diagnosticare meno della metà dei casi reali. “Pertanto – racconta Inés -, uno dei nostri obiettivi è insegnare le tecniche di base, in modo che sia possibile azzeccare la diagnosi delle malattie batteriche più importanti”.

La patologia delle malattie di Monkole non ha nulla a che vedere con quelle della Spagna o dell’Europa. Le malattie predominanti, dalle quali bisogna guardarsi, sono altre: malaria, AIDS o rachitismo. Quest’ultimo provoca tremende malformazioni, dovute alla cattiva alimentazione. L’indice della malaria è così elevato a Kinshasa che in alcune banche del sangue neppure si accertano che il paziente ne sia affetto, perché è quasi scontato. Il sistema impiegato in Spagna della emovigilanza (fare un controllo delle sacche di sangue per individuare le partite che possono essere in cattivo stato) viene fatto in modo precario. Inés ricorda che alcuni anni fa aveva letto un articolo che l’aveva scandalizzata perché ai bambini africani affetti dall’anemia, per lo più dovuta alla malaria, non si facevano trasfusioni per il rischio che s’infettassero di AIDS. Ramón, Inés e Antonio assicurano che molti laboratori di Kinshasa, oltre a difettare di igiene, mancano dei protocolli di controllo o di sistemi di lavoro. “Non è scritto in nessun posto – racconta Antonio -. Forse qualcosa di molto simile a un protocollo d’uso lo puoi trovare su un foglietto scritto a mano e appiccicato a una piastrella del laboratorio, con alcune indicazioni su come fare certe cose”.

 

Gli oltre 25 anni di Monkole

Sin da quando sono ritornati a Pamplona, i tre medici lavorano ognuno a casa propria per riorganizzare il laboratorio e applicare le migliori tecniche possibili, tenendo conto dei limiti oggettivi. Perciò devono mantenere una costante comunicazione – tra loro e con Monkole -, cercare una buona documentazione, adempiere scrupolosamente alla legislazione, vagliare le possibilità e portare avanti le diverse proposte formulate sul posto. Ramón è convinto che si tratta di gettare le basi, “ma che poi occorre sensibilizzare i medici e i tecnici congolesi che devono studiare e continuare ad aggiornarsi per poter fare progressi. Il loro apprendimento continuo è fondamentale”.

Inés, Ramón e Antonio non si aspettavano di imparare tante cose da questa esperienza, e lo si nota dalle loro conversazioni. Ramón è del parere che in Spagna si vive con troppi capricci. Antonio fa un esempio: “Come posso lamentarmi di questo filetto, se è un po’ più duro o un po’ più salato, quando ho visto con i miei occhi che in Africa non hanno niente da mangiare?”: Tutt’e tre parlano con entusiasmo del progetto al quale stanno lavorando. Sono rimasti colpiti dal fatto che Monkole è arrivato al punto in cui oggi si trova in meno di trent’anni. “Qui bisogna fare tanto di cappello al dottor Juanjo Echarri Iribarren, uno dei medici spagnoli che hanno avviato l’iniziativa. È impressionante vedere gli edifici che hanno costruito, la pulizia e la gentilezza che regnano. È come stare all’Università”, dice Ramón. Antonio è d’accordo: “Anche entrando nell’oratorio di quella Scuola di Infermiere si ha l’impressione di entrare nella Clinica Universitaria di Navarra. È un’oasi all’interno del paese. Monkole sta indicando uno stile di lavoro e di efficienza. Colpisce molto quello che Monkole rappresenta, sia in rapporto agli altri centri ospedalieri che abbiamo visto, sia in rapporto a tutto il paese”.

La Scuola di Infermiere, che si trova negli edifici dell’Ospedale di Monkole, ha attualmente una trentina di alunne congolesi. Vivono in una residenza nella quale, come dice Inés, “partecipano alle lezioni, studiano e hanno a disposizione gli stessi mezzi che avrebbero in una Residenza dell’Università di Navarra”. Ogni anno si diploma una nuova ondata di infermiere, le quali si distribuiscono tra i diversi centri sanitari del paese e, un po’ alla volta, vanno diffondendo quello che hanno imparato; fra cui, un nuovo stile di lavoro.

I tre medici hanno concentrato in poco più di una settimana un mucchio di esperienze, immagini e sentimenti, che a poco a poco andranno assimilando con il loro lavoro a distanza. Ridono ancora nel ricordare le peripezie vissute. Come quando Antonio fece “la sbruffonata” – a quel che dice Inés – di chiedere di mangiare il cibo locale, mentre abitualmente a pranzo gli servivano riso, uova e verdure. “Ci portarono vermi e carne di scimmia”, aggiunge. Il loro prossimo obiettivo, “se tutto segue il suo corso” – precisa Ramón –, sarà quello di ritornare in Congo fra alcuni mesi, in estate o in autunno, per inaugurare il laboratorio nel nuovo edificio dell’Ospedale di Monkole.

Sia Antonio, che, quando era partito per il Congo, aveva lasciato in Spagna la moglie, sia Ramón e Inés si mostrano soddisfatti del lavoro che stanno facendo. Anche i rispettivi familiari lo vedono di buon occhio, pur sapendo che il progetto fa diminuire il tempo che possono dedicare ai nipoti. “Sapevamo che non saremmo stati degli ispettori del lavoro di altri, ma dei pensionati attivi che avrebbero fatto una serie di cose”, dice Antonio; poi aggiunge: “Che dire della possibilità di prendersi qualche malattia...? Come ha detto Inés, siamo ormai al limite della vita; se moriremo, il Congo non è poi un brutto posto”.

 

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Inés Dorronsoro

L’Ospedate di Monkole continua a crescere

Nell’aprile del 1991 il Centro Medico Monkole cominciava il suo percorso come ambulatorio. Con ciò iniziava anche il miglioramento della sanità e dell’educazione sanitaria nel comune di Mont-Ngafuala di Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo.

Grazie all’apertura di altri tre ambulatori medico-sociali – tra il 1995 e il 2000 – in altri punti della città, quelli di Eliba, Kimbondo e Moluka, ogni anno è stata data la possibilità a quattrocento ragazzi che ne avevano bisogno di accedere all’assistenza medica e a più di 180 donne delle campagne di partecipare ai corsi di alfabetizzazione.

Dal 1995 il Centro Medico Monkole rimane aperto giorno e notte. L’ospedale si avvale oggi di un imponente staff di medici qualificati, come il dottor León Tshilolo, direttore del centro, il dottor A. Ndrabu, vice-direttore dell’Ospedale di Monkole, e le dottoresse Sesé e Mazuecos, direttrici della Scuola di Infermiere dell’Ospedale di Monkole.

I servizi vengono erogati sia alle istituzioni ufficiali che a quelle private, sia alle aziende che ai singoli. Ogni paziente paga quello che può. Il Centro Medico dispone di 46 posti letto e offre servizi di maternità, pediatria, medicina interna, chirurgia, pediatria con cure intensive, day-hospital, laboratorio, farmacia, banca del sangue, radiologia, ecografia e sala operatoria.

Attualmente si sta costruendo un nuovo edificio che aumenterà la capacità ricettiva, sarà dotato di migliori attrezzature mediche, coprirà tutte le patologie gravi e offrirà una migliore assistenza sanitaria. L’apertura è prevista per il 2011, disporrà di più di 15.000 metri quadrati, con 135 camere, 18 sale di consultazione ambulatoriale, una sala operatoria per interventi di urgenza e un day-hospital. È promosso dall’Ente senza fini di lucro Centro Congolese per la Cultura, dalla Formazione e Sviluppo (CECFOR) e dal Governo della Navarra.

    Nuestro Tiempo - Testo di Chus Cantalapiedra. Fotografie di Antonio Medarde.