Arigatou!

Paco è in Giappone da quasi trent’anni. È docente universitario e scrive perché vuole ringraziare tutti coloro che hanno pregato per il suo Paese; racconta anche alcuni episodi di queste settimane.

Mi ha scritto una persona che amo molto. Lei e i suoi due figli malati pregano molto per noi; mi ha detto che era rimasta molto impressionata dall’immagine dell’imperatore, inginocchiato a terra, mentre parla con le vittime del terremoto nel palazzo dello sport di Tokio o budoukan (letteralmente: “palazzo delle arti marziali”).

Questo mi ha fatto ricordare una scena che Inazo Nitobe racconta nel suo libro “Bushido”. Un uomo anziano, togliendosi il cappello, si ferma a salutare una missionaria che stava lavorando nei campi. «Via, non sia tanto gentile; siamo in piena campagna», disse lei. Ma il contadino replicò: «Visto che non posso condividere il cappello con lei, perché non si può usare in due, almeno voglio condividere con lei il rigore del sole».

Questo atteggiamento di umile solidarietà è assai tipico del popolo giapponese; gente che, in generale, sa ascoltare e sa mettersi nei panni dell’altro. Una virtù degna di ammirazione, almeno per me, perché uno dei miei difetti dominanti è che sono un chiacchierone. Mai, nei 28 anni vissuti qui, ho notato la pur minima impazienza nel mio interlocutore, che mi ascoltava con un sorriso, annuendo con la testa. E purtroppo il mio difetto va aumentando.

Insieme alla cortesia, la gratitudine. Sumimasen (mi dispiace) e arigatou (grazie) sono le due parole più frequenti nella vita quotidiana; e non diciamo niente quando si tratta di situazioni estreme, come quelle che stiamo vivendo in questi giorni. Ieri mi sono commosso vedendo in TV la scena di una donna ottuagenaria che era uscita dal suo rifugio per ringraziare i soldati americani per le bottiglie di acqua che le avevano fatto avere. Prendendo le mani dell’ufficiale, con le lacrime agli occhi, riverenza dopo riverenza, ripeteva instancabilmente: arigatou, arigatou, arigatou...

Imparata la lezione, voglio approfittare di questa lettera per ringraziare tutti dei tanti messaggi di sostegno e, soprattutto, delle tante preghiere, che faranno e stanno producendo piccoli e grandi miracoli. Forse la maggior parte non verranno neppure notati, dato che appartengono alla sfera del cuore o all’intimità più profonda dell’anima, ma è ormai evidente, per esempio, il miracolo di una solidarietà senza precedenti, che indubbiamente avrà conseguenze molto positive nelle relazioni fra i popoli.

Nella centrale nucleare di Fukushima sono presenti, da una parte, una squadra della Cina provvista di un semovente dotato di una prolunga di 62 metri, capace di iniettare tonnellate di acqua da lunga distanza nei reattori per raffreddarli, e dall’altra gli americani con alcuni robot utilizzati nelle guerre in Irak e Afganistan (qui con un obiettivo molto differente), senza contare i gruppi di esperti francesi, coreani, tedeschi, ecc. Gli israeliani hanno mandato un “ospedale” completo, dotato persino di una sala operatoria, gestito da un gruppo di medici e infermiere scelti tra i migliori del Paese... Potremmo anche proseguire aggiungendo un’infinità di Paesi (più di 130 hanno offerto il loro aiuto), gruppi e persone che si stanno..., che vi state facendo in quattro per aiutarci. A tutti, grazie!

Un altro piccolo miracolo è quello di Yuko e di suo figlio Kento. Viaggiavano in macchina in cerca di un rifugio quando lo tsunami li raggiunse. La macchina fu trascinata per cinquecento metri, galleggiando all’altezza di circa due piani finché s’incastrò in un albero. Poi, man mano che le acque scendevano la macchina si abbassò e alla fine si posò sul terreno. Gli occupanti si sono salvati: una specie di “Arca di Noè”.

Norie, 86 anni, si trovava nella cucina di una residenza per anziani quando l’ondata entrò in casa. L’ultima cosa che ricorda è che, vedendosi ricoperta dall’acqua, si tappò la bocca con la sciarpa. Quando riprese conoscenza si trovava sulla sedia a rotelle sulla tavola della sala da pranzo, insieme ad altri due anziani. Gli altri, cinquanta persone, erano morti. “Ora devo vivere intensamente quel che mi resta da vivere, anche per quelli che se ne sono andati”, dice colma di gratitudine.

Il giornale riporta, corredata da due fotografie, la storia di Manami, una bambina di quattro anni che ha perduto la famiglia. Nella prima foto appare addormentata su una lettera che stava scrivendo alla mamma: “Carissima mami, spero che tu sia viva. Stai bene?”. Nella seconda foto è seduta su una panca e guarda il mare. Sul bordo inferiore del foglio è scritto che tutti i giorni sta seduta lì aspettando che la madre ritorni. Io prego perché Manami e molti altri giapponesi scoprano che possono contare su un’altra Madre, Maria “umi no hoshi”, Stella del Mare.

Penso che quello giapponese sia un popolo con molte e grandi virtù, fra i molti altri motivi, perché è abituato a convivere con la sofferenza. Basterebbe ricordare le catastrofi accadute soltanto nel secolo scorso: il terremoto di Tokio (1923) con 145.000 morti; la seconda guerra mondiale terminata con le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, con circa due milioni di vittime; il tifone di Ise wan (1950), con 5.000 morti; il sisma che rase al suolo Kobe (1995), con 6.000 morti, oltre i tanti terremoti e tifoni che si sono succeduti negli anni con effetti più o meno gravi. Ma il Giappone è risorto sempre, grazie alla solidarietà e alla tenacia della sua gente.

Con questo si spiega anche perché Antonio Gaudí è così popolare tra i giapponesi: egli, colpito da una malattia contratta durante l’infanzia, ha stretto amicizia con Dio ammirando la natura e ha lasciato inciso il suo spirito di fede in quell’opera meravigliosa, Vangelo scolpito nella pietra, che è la basilica della Sagrada Familia, con la quale i giapponesi si sentono in sintonia.

Però non possiamo vedere tutte queste cose soltanto con gli occhi della carne, ma anche con quelli della fede e con quelli del cuore, muovendoci a compassione, che vuol dire “soffrire con”, pregando, offrendo il nostro lavoro ben fatto e qualche piccola mortificazione, pensando a quelli che sono rimasti senza nulla.

Finisco con una frase di Madre Teresa, tanto amata in questo paese (in questi giorni c’è una esposizione su di essa in una galleria d’arte a cento metri da casa mia, in occasione del centenario della sua nascita). Una gran donna “che ha saputo soffrire”, che ha saputo compatire (“soffrire con”) i più poveri dei poveri. Le sue monachelle sono state fra le prime a offrirsi in Giappone per curare i malati di Aids, in un’epoca in cui questa malattia era considerata tabù per paura del contagio, qualcosa di simile ai “lebbrosi” del XX secolo: “La rivoluzione dell’amore comincia con un sorriso. Sorridi cinque volte a chi, in realtà, non vorresti sorridere. Devi farlo per la pace”.

Di nuovo, arigatou!

Paco, in giapponese “pa”, significa “onda” perché mi piace il mare, e “co”, “chiamata”, alludendo alla mia vocazione, il tesoro più grande che il Signore mi ha concesso. Questi caratteri o “kanji” li ha individuati per me un amico al quale devo molto, Yoshihiko Takayama, che desidero menzionare qui in onore della nostra amicizia.