Il viaggio del Papa in Sud America

Vi proponiamo una selezione dei testi degli incontri, discorsi e omelie di Papa Francesco pronunciati durante il suo viaggio apostolico in Ecuador, Bolivia e Paraguay iniziato il 5 luglio.

INCONTRO CON I GIOVANI

Lungofiume "Costanera", Asunción (Paraguay)
Domenica, 12 luglio 2015

Cari giovani, buon pomeriggio!

Dopo aver letto il Vangelo, Orlando si è avvicinato per salutarmi e mi ha detto: “Ti chiedo di pregare per la libertà di ognuno di noi, di tutti”. E’ la benedizione che ha chiesto Orlando per ognuno di noi. E’ la benedizione che chiediamo adesso tutti insieme: la libertà. Perché la libertà è un dono che ci dà Dio, ma bisogna saperlo accogliere, bisogna saper avere il cuore libero. Perché tutti sappiamo che nel mondo ci sono tanti lacci che ci legano il cuore e non lasciano che il cuore sia libero. Lo sfruttamento, la mancanza di mezzi per sopravvivere, la dipendenza dalla droga, la tristezza… tutte queste cose ci tolgono la libertà. E allora tutti insieme… ringraziando Orlando che ha chiesto questa benedizione, avere il cuore libero, un cuore che possa dire quello che pensa e quello che sente: questo è un cuore libero!... E questo è ciò che adesso chiediamo tutti insieme, questa benedizione che Orlando ha chiesto per tutti. Ripetete con me [il Santo Padre pronuncia la preghiera frase per frase e i giovani ripetono]: Signore Gesù, dammi un cuore libero. Che non sia schiavo di tutte le trappole del mondo. Che non sia schiavo della comodità, dell’inganno. Che non sia schiavo della “bella vita”. Che non sia schiavo dei vizi. Che non sia schiavo di una falsa libertà, che è fare quello che mi piace in ogni momento.

Grazie, Orlando, per averci fatto rendere conto che dobbiamo domandare un cuore libero. Chiedetelo tutti i giorni!

Abbiamo ascoltato due testimonianze: quella di Liz e quella di Manuel. Liz ci insegna una cosa. Come Orlando ci ha insegnato a pregare per avere un cuore libero, Liz con la sua vita ci insegna che non bisogna essere come Ponzio Pilato, lavarsene le mani! Liz avrebbe potuto tranquillamente mettere sua mamma in un ricovero, sua nonna in un altro ricovero e vivere la sua vita da giovane, divertendosi, studiando quello che voleva. E ha detto: No. La nonna, la mamma… E Liz è diventata serva, servitrice e, se volete ancora più forte, servente della mamma e della nonna. E lo ha fatto con affetto! A tal punto – diceva lei – che addirittura si sono scambiati i ruoli e lei ha finito per essere la mamma di sua mamma, nel modo in cui la curava. Sua mamma, con quella malattia così crudele che confonde le cose. E lei ha bruciato la sua vita, fino ad ora, fino a 25 anni, servendo sua mamma e sua nonna. Sola? No, Liz non era sola. Lei ha detto due cose che ci devono aiutare. Ha parlato di un angelo, di una zia che è stata come un angelo; e ha parlato dell’incontro con gli amici nei fine settimana, con la comunità giovanile di evangelizzazione, con il gruppo giovanile che alimentava la sua fede. E quei due angeli – la zia che l’assisteva e il gruppo giovanile – le davano più forza per andare avanti. E questo si chiama solidarietà. Come si chiama? [i giovani rispondono: “Solidarietà!”] Quando ci facciamo carico del problema dell’altro. E lei ha trovato lì un’oasi di pace per il suo cuore stanco. Ma c’è una cosa che ci sfugge. Lei non ha detto: “Faccio questo e basta”. Ha studiato. Ed è infermiera. E nel fare tutto questo, l’aiuto, la solidarietà che ha ricevuto da voi, dal vostro gruppo, che ha ricevuto da quella zia che era come un angelo, l’ha aiutata ad andare avanti. E oggi, a 25 anni, ha la grazia che Orlando ci faceva chiedere: ha un cuore libero. Liz mette in pratica il quarto comandamento: “Onora tuo padre e tua madre”. Liz esprime la sua vita - la brucia! - nel servizio a sua madre. E’ un grado altissimo di solidarietà, è un grado altissimo di amore. Una testimonianza. “Padre, allora è possibile amare?”. Qui avete qualcuno che ci insegna ad amare.

Primo: libertà, cuore libero. Allora, tutti insieme [con i giovani]: “Primo: cuore libero”. Secondo: solidarietà per accompagnare. Solidarietà. Questo è ciò che ci insegna questa testimonianza.

E Manuel non ha avuto una vita facile. Manuel non è un “cocco di mamma”, non è stato un “pupo”; non è stato un bambino e oggi un ragazzo dalla vita facile. Ha detto parole dure: “Sono stato sfruttato, sono stato maltrattato, a rischio di cadere nelle dipendenze… Ero solo”. Sfruttamento, maltrattamenti e solitudine. E invece di fare cose negative, invece di andare a rubare, si è messo a lavorare! Invece di vendicarsi della vita, ha guardato avanti! E Manuel ha usato una frase bella: “Ho potuto andare avanti, perché nella situazione in cui mi trovavo era difficile parlare di futuro”. Quanti giovani, voi, oggi hanno la possibilità di studiare, di sedersi a tavola con la famiglia tutti i giorni, hanno la possibilità che non manchi loro l’essenziale? Quanti di voi hanno queste cose? Tutti insieme, quelli che hanno questo, dicano: “Grazie Signore!” [giovani: “Grazie Signore!”]. Perché qui abbiamo avuto una testimonianza di un ragazzo che fin da bambino ha saputo che cos’era il dolore, la tristezza, che è stato sfruttato, maltrattato, che non aveva da mangiare e che era solo. Signore, salva i bambini e le bambine che si trovano in questa situazione! E per noi, Signore, grazie. “Grazie Signore!” [giovani: “Grazie Signore!”].

Libertà del cuore - vi ricordate? -, libertà del cuore, quello che ci diceva Orlando. Servizio, solidarietà, quello che ci diceva Liz. Speranza, lavoro, lottare per la vita, andare avanti: quello che ci diceva Manuel.

Come vedete, la vita non è facile per molti giovani. E questo voglio che lo comprendiate. Voglio che ve lo mettiate in testa. “Se per me la vita è relativamente facile, ci sono altri ragazzi per i quali non è relativamente facile”. Addirittura, ce ne sono alcuni che la disperazione spinge alla delinquenza, spinge al delitto, spinge a collaborare con la corruzione. A questi ragazzi, a queste ragazze, dobbiamo dire che noi siamo loro vicino, che vogliamo dare loro una mano, che volgiamo aiutarli, con solidarietà, con amore, con speranza.

Ci sono due frasi che hanno detto i due che hanno parlato, Liz e Manuel. Due frasi, sono belle. Ascoltatele. Liz ha detto che ha incominciato a conoscere Gesù, conoscere Gesù, e questo è aprire la porta alla speranza. E Manuel ha detto: “Ho conosciuto Dio, mia fortezza”. Cioè, conoscere Dio, avvicinarsi a Gesù, è speranza e fortezza. E questo è ciò che abbiamo bisogno di trovare nei giovani oggi: giovani con speranza e giovani con fortezza. Non vogliamo giovani “smidollati”, giovani del “fin qui e non di più”, né sì né no. Non vogliamo giovani che si stancano subito e vivono stanchi, con la faccia annoiata. Vogliamo giovani forti. Vogliamo giovani con speranza e con fortezza. Perché? Perché conoscono Gesù, perché conoscono Dio. Perché hanno un cuore libero. Cuore libero! Ripetete! [giovani: “Cuore libero”] Soldarietà! [ripetono] Lavoro! [ripetono] Speranza! [ripetono] Sforzo! [ripetono] Conoscere Gesù! [ripetono] Conoscere Dio mia fortezza! [ripetono]. Un giovane che vive così ha la faccia annoiata? [“No!”] Ha il cuore triste? [“No!”] Questa è la strada!

Però per questo ci vuole sacrificio, bisogna andare controcorrente. Le Beatitudini che abbiamo letto poco fa sono il progetto di Gesù per noi. Ed è un progetto controcorrente. Gesù vi dice: «Beati i poveri in spirito». Non dice: “Beati i ricchi, quelli che accumulano soldi”. No. I poveri in spirito, quelli che sono capaci di avvicinarsi e comprendere chi è un povero. Gesù non dice: “Beati quelli che se la passano bene”, ma dice: “Beati quelli che hanno la capacità di affliggersi per il dolore degli altri”. E così di seguito… Io vi raccomando di leggere dopo, a casa, le Beatitudini, che si trovano nel capitolo quinto di San Matteo. In che capitolo sono? [giovani: “Quinto”] Di quale Vangelo? [Matteo”]. Leggetele e meditatele, che vi farà bene.

Voglio ringraziare te, Liz; ti ringrazio, Manuel; e ti ringrazio, Orlando. Cuore libero, così dev’essere.

E devo andarmene… [giovani: “No!”]. L’altro giorno, un prete per scherzo mi ha detto: “Sì, Lei continui pure a dire ai giovani di fare chiasso, continui pure... Ma poi, il chiasso che fanno i giovani dobbiamo gestirlo noi!”. Fate chiasso, ma aiutate anche a gestire e organizzare il chiasso che fate. Fate chiasso e organizzatelo bene! Un chiasso che ci dia un cuore libero, un chiasso che ci dia solidarietà, un chiasso che ci dia speranza, un chiasso che nasca dall’aver conosciuto Gesù e dal sapere che Dio, che ho conosciuto, è la mia fortezza. Questo è il chiasso che vi invito a fare.

Dato che conoscevo le domande, perché me le avevano date prima, avevo scritto un discorso per voi, per darvelo, ma i discorsi sono noiosi…, e così lo consegno al Vescovo incaricato della Gioventù, perché lo pubblichi.

E ora, prima di andarmene, [“No!”] vi chiedo: primo, di continuare a pregare per me; secondo, di continuare a fare chiasso; terzo, di aiutare a organizzare il chiasso che fate perché non faccia disastri.

E tutti insieme adesso, in silenzio, eleviamo il cuore a Dio. Ognuno nel suo cuore, a bassa voce, ripeta le parole:

Signore Gesù, ti ringrazio perché sono qui. Ti ringrazio di avermi dato fratelli come Liz, Manuel e Orlando. Ti ringrazio di avermi dato tanti fratelli che sono come loro, che ti hanno incontrato, Gesù, che ti conoscono, Gesù, che sanno che Tu, loro Dio, sei la loro fortezza. Gesù, ti prego per i ragazzi e le ragazze che non sanno che Tu sei la loro fortezza, e che hanno paura di vivere, paura di essere felici, hanno paura di sognare. Gesù, insegnaci a sognare, a sognare cose grandi, cose belle, cose che anche se sembrano quotidiane sono cose che allargano il cuore. Signore Gesù, dacci fortezza, dacci un cuore libero, dacci speranza, dacci amore, e insegnaci a servire. Amen.

Ora vi dò la benedizione e vi chiedo, per favore, di pregare per me, e di pregare per tanti ragazzi e ragazze che non hanno la grazia che avete voi di aver conosciuto Gesù, che vi dà la speranza, vi dà un cuore libero e vi rende forti.

CELEBRAZIONE DEI VESPRI CON VESCOVI, SACERDOTI, DIACONI,
RELIGIOSI E RELIGIOSE, SEMINARISTI E MOVIMENTI CATTOLICI

Cattedrale Metropolitana dell'Assunta, Asunción (Paraguay)
Sabato, 11 luglio 2015

Che bello pregare tutti insieme i Vespri! Come non sognare una Chiesa che rifletta e ripeta l’armonia delle voci e del canto nella vita quotidiana? E lo facciamo in questa Cattedrale, che tante volte ha dovuto ricominciare di nuovo; questa Cattedrale è segno della Chiesa e di ognuno di noi: a volte le tempeste da fuori e da dentro ci obbligano a buttar giù ciò che abbiamo costruito e cominciare di nuovo, ma sempre con la speranza riposta in Dio; e se guardiamo questo edificio, senza dubbio non ha deluso i paraguayani, perché Dio non delude mai e per questo lo lodiamo con gratitudine.

La preghiera liturgica, con la sua struttura e la sua forma ritmata, vuole esprimere la Chiesa tutta, sposa di Cristo, che cerca di conformarsi al suo Signore. Ognuno di noi nella nostra preghiera vogliamo diventare più somiglianti a Gesù.

La preghiera fa emergere quello che stiamo vivendo o che dovremmo vivere nella vita quotidiana, almeno la preghiera che non vuole essere alienante o solo decorativa. La preghiera ci dà impulso per mettere in atto o verificarci in ciò che recitavamo nei salmi: siamo noi le mani di Dio che «dall’immondizia rialza il povero» (Sal 112[113],7) e siamo noi a lavorare perché la tristezza della sterilità si trasformi nella gioia del terreno fertile. Noi che cantiamo che «agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli» (Sal 116,15), siamo quelli che lottiamo, ci diamo da fare, difendiamo il valore di ogni vita umana, dal concepimento fino a che gli anni sono molti e la forza poca. La preghiera è riflesso dell’amore che sentiamo per Dio, per gli altri, per il mondo creato; il comandamento dell’amore è la miglior configurazione con Gesù del discepolo missionario. Stare attaccati a Gesù dà profondità alla vocazione cristiana, che, coinvolta nel “fare” di Gesù – che è molto più che delle attività –, cerca di assomigliare a Lui in tutto ciò che compie. La bellezza della comunità ecclesiale nasce dall’adesione di ciascuno dei suoi membri alla persona di Gesù, formando un “insieme vocazionale” nella ricchezza della varietà armonica.

Le antifone dei cantici evangelici di questo fine settimana ci ricordano l’invio dei Dodici da parte di Gesù. Sempre è bene crescere in questa coscienza di lavoro apostolico in comunione. E’ bello vedervi collaborare pastoralmente, sempre a partire dalla natura e dalla funzione ecclesiale di ogni vocazione e ogni carisma. Desidero esortare tutti voi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici e seminaristi, vescovi, ad impegnarvi in questa collaborazione ecclesiale, specialmente intorno ai piani pastorali delle diocesi e alla missione continentale, cooperando con tutta la vostra disponibilità al bene comune. Se la divisione tra noi provoca sterilità (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 98-101), non c’è dubbio che dalla comunione e dall’armonia nasca la fecondità, perché sono profondamente consonanti con lo Spirito Santo.

Tutti abbiamo limiti, nessuno può riprodurre Gesù Cristo nella sua totalità, e sebbene ogni vocazione si configura principalmente con alcuni raggi della vita e dell’opera di Gesù, ce ne sono alcuni comuni e irrinunciabili. Abbiamo appena lodato il Signore perché «non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (Fil 2,6), e questa è una caratteristica di ogni vocazione cristiana, «non ritenne un privilegio l’essere come Dio»: chi è chiamato da Dio non si vanta, non va in cerca di riconoscimenti né di applausi effimeri, non sente di esser salito di categoria e non tratta gli altri come se fosse su un piedestallo.

Il primato di Cristo è descritto chiaramente nella liturgia della Lettera gli Ebrei; noi abbiamo appena letto quasi il finale di tale Lettera: “Renderci perfetti come il pastore grande delle pecore” (cfr 13,20-21) e questo comporta riconoscere che ogni consacrato si configura a Colui che nella sua vita terrena, tra «preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime» (Eb 5,7) raggiunse la perfezione quando imparò, soffrendo, che cosa significava obbedire; e anche questo fa parte della chiamata.

Terminiamo di recitare i nostri Vespri. Il campanile di questa Cattedrale è stato rifatto più volte; il suono delle campane precede e accompagna in molte occasioni la nostra preghiera liturgica: fatti nuovi da Dio ogni volta che preghiamo, saldi come un campanile, gioiosi di predicare le meraviglie di Dio, condividiamo il Magnificat e lasciamo al Signore di fare – che Lui faccia – mediante la nostra vita consacrata, grandi cose nel Paraguay.

PARTECIPAZIONE AL II INCONTRO MONDIALE DEI MOVIMENTI POPOLARI

Centro fieristico Expo Feria, Santa Cruz de la Sierra (Bolivia)

Giovedì, 9 luglio 2015

Sorelle e fratelli, buon pomeriggio!

Qualche mese fa ci siamo incontrati a Roma ed ho presente quel primo nostro incontro. Durante questo periodo vi ho portato nel mio cuore e nelle mie preghiere. Sono contento di rivedervi qui, a discutere sui modi migliori per superare le gravi situazioni di ingiustizia che soffrono gli esclusi in tutto il mondo. Grazie, Signor Presidente Evo Morales, perché accompagna così risolutamente questo Incontro.

Quella volta a Roma ho sentito qualcosa di molto bello: fraternità, decisione, impegno, sete di giustizia. Oggi, a Santa Cruz de la Sierra, ancora una volta sento lo stesso. Grazie per tutto ciò. Ho saputo anche dal cardinale Turkson presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che molti nella Chiesa si sentono più vicini ai movimenti popolari. Me ne rallegro molto! Vedere la Chiesa con le porte aperte a tutti voi, mettersi in gioco, accompagnare, e programmare in ogni diocesi, ogni Commissione di Giustizia e Pace, una reale collaborazione, permanente e impegnata con i movimenti popolari. Vi invito tutti, Vescovi, sacerdoti e laici, comprese le organizzazioni sociali nelle periferie urbane e rurali, ad approfondire tale incontro.

Dio ci consente di rivederci nuovamente oggi. La Bibbia ci ricorda che Dio ascolta il grido del suo popolo e anch’io desidero unire la mia voce alla vostra: le famose “tre t”: terra, casa e lavoro per tutti i nostri fratelli e sorelle. L’ho detto e lo ripeto: sono diritti sacri. Vale la pena, vale la pena di lottare per essi. Che il grido degli esclusi si oda in America Latina e in tutta la terra.

1. Prima di tutto, iniziamo riconoscendo che abbiamo bisogno di un cambiamento. Ci tengo a precisare, affinché non ci sia fraintendimento, che parlo dei problemi comuni a tutti i latino-americani e, in generale, a tutta l'umanità. Problemi che hanno una matrice globale e che oggi nessuno Stato è in grado di risolvere da solo. Fatto questo chiarimento, propongo di porci queste domande:

- Sappiamo riconoscere, sul serio, che le cose non stanno andando bene in un mondo dove ci sono tanti contadini senza terra, molte famiglie senza casa, molti lavoratori senza diritti, molte persone ferite nella loro dignità?

- Riconosciamo che le cose non stanno andando bene quando esplodono molte guerre insensate e la violenza fratricida aumenta nei nostri quartieri? Sappiamo riconoscere che le cose non stanno andando bene quando il suolo, l'acqua, l'aria e tutti gli esseri della creazione sono sotto costante minaccia?

E allora, se riconosciamo questo, diciamolo senza timore: abbiamo bisogno e vogliamo un cambiamento.

Voi nelle vostre lettere e nei nostri incontri - mi avete informato sulle molte esclusioni e sulle ingiustizie subite in ogni attività di lavoro, in ogni quartiere, in ogni territorio. Sono molti e diversi come molti e diversi sono i modi di affrontarli. Vi è, tuttavia, un filo invisibile che lega ciascuna delle esclusioni. Non sono isolate, sono unite da un filo invisibile. Possiamo riconoscerlo? Perché non si tratta di problemi isolati. Mi chiedo se siamo in grado di riconoscere che tali realtà distruttive rispondono ad un sistema che è diventato globale. Sappiamo riconoscere che tale sistema ha imposto la logica del profitto ad ogni costo, senza pensare all’esclusione sociale o alla distruzione della natura?

Se è così, insisto, diciamolo senza timore: noi vogliamo un cambiamento, un vero cambiamento, un cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità, i villaggi .... E non lo sopporta più la Terra, la sorella Madre Terra, come diceva san Francesco.

Vogliamo un cambiamento nella nostra vita, nei nostri quartieri, nel salario minimo, nella nostra realtà più vicina; e pure un cambiamento che tocchi tutto il mondo perché oggi l'interdipendenza planetaria richiede risposte globali ai problemi locali. La globalizzazione della speranza, che nasce dai Popoli e cresce tra i poveri, deve sostituire questa globalizzazione dell’esclusione e dell’indifferenza!

Oggi vorrei riflettere con voi sul cambiamento che vogliamo e di cui vi è necessità. Sapete che recentemente ho scritto circa i problemi del cambiamento climatico. Ma questa volta, voglio parlare di un cambiamento nell’altro senso. Un cambiamento positivo, un cambiamento che ci faccia bene, un cambiamento che potremmo dire redentivo. Perché ne abbiamo bisogno. So che voi cercate un cambiamento e non solo voi: nei vari incontri, nei diversi viaggi, ho trovato che esiste un’attesa, una ricerca forte, un desiderio di cambiamento in tutti i popoli del mondo. Anche all'interno di quella minoranza in diminuzione che crede di beneficiare di questo sistema regna insoddisfazione e soprattutto tristezza. Molti si aspettano un cambiamento che li liberi da questa tristezza individualista che rende schiavi.

Il tempo, fratelli, sorelle, il tempo sembra che stia per giungere al termine; non è bastato combattere tra di noi, ma siamo arrivati ad accanirci contro la nostra casa. Oggi la comunità scientifica accetta quello che già da molto tempo denunciano gli umili: si stanno producendo danni forse irreversibili all’ecosistema. Si stanno punendo la terra, le comunità e le persone in modo quasi selvaggio. E dopo tanto dolore, tanta morte e distruzione, si sente il tanfo di ciò che Basilio di Cesarea – uno dei primi teologi della Chiesa – chiamava lo “sterco del diavolo”. L’ambizione sfrenata di denaro che domina. Questo è lo “sterco del diavolo”. E il servizio al bene comune passa in secondo piano. Quando il capitale diventa idolo e dirige le scelte degli esseri umani, quando l’avidità di denaro controlla l’intero sistema socioeconomico, rovina la società, condanna l’uomo, lo fa diventare uno schiavo, distrugge la fraternità interumana, spinge popolo contro popolo e, come si vede, minaccia anche questa nostra casa comune, la sorella madre terra.

Non voglio dilungarmi a descrivere gli effetti negativi di questa sottile dittatura: voi li conoscete. E non basta nemmeno segnalare le cause strutturali del dramma sociale e ambientale contemporaneo. Noi soffriamo un certo eccesso diagnostico che a volte ci porta a un pessimismo parolaio o a crogiolarci nel negativo. Vedendo la cronaca nera di ogni giorno, siamo convinti che si può fare nulla, ma solo prendersi cura di sé e della piccola cerchia della famiglia e degli affetti.

Cosa posso fare io, raccoglitore di cartoni, frugatrice tra le cose, raccattatore, riciclatrice, di fronte a problemi così grandi, se appena guadagno quel tanto per mangiare? Cosa posso fare io artigiano, venditore ambulante, trasportatore, lavoratore escluso se non ho nemmeno i diritti dei lavoratori? Cosa posso fare io, contadina, indigeno, pescatore che appena appena posso resistere all’asservimento delle grandi imprese? Che cosa posso fare io dalla mia borgata, dalla mia baracca, dal mio quartiere, dalla mia fattoria quando sono quotidianamente discriminato ed emarginato? Che cosa può fare questo studente, questo giovane, questo militante, questo missionario che calca quartieri e luoghi con un cuore pieno di sogni, ma quasi nessuna soluzione ai suoi problemi? Potete fare molto. Potete fare molto! Voi, i più umili, gli sfruttati, i poveri e gli esclusi, potete fare e fate molto. Oserei dire che il futuro dell'umanità è in gran parte nelle vostre mani, nella vostra capacità di organizzare e promuovere alternative creative nella ricerca quotidiana delle “tre t”, d’accordo? - lavoro, casa, terra - e anche nella vostra partecipazione attiva ai grandi processi di cambiamento, cambiamenti nazionali, cambiamenti regionali e cambiamenti globali. Non sminuitevi!

2. Voi siete seminatori di cambiamento. Qui in Bolivia ho sentito una frase che mi piace molto: “processo di cambiamento”. Il cambiamento concepito non come qualcosa che un giorno arriverà perché si è imposta questa o quella scelta politica o perché si è instaurata questa o quella struttura sociale. Sappiamo dolorosamente che un cambiamento di strutture che non sia accompagnato da una sincera conversione degli atteggiamenti e del cuore finisce alla lunga o alla corta per burocratizzarsi, corrompersi e soccombere. Bisogna cambiare il cuore. Per questo mi piace molto l’immagine del processo, i processi, dove la passione per il seminare, per l’irrigare con calma ciò che gli altri vedranno fiorire sostituisce l’ansia di occupare tutti gli spazi di potere disponibili e vedere risultati immediati. La scelta è di generare processi e non di occupare spazi. Ognuno di noi non è che parte di un tutto complesso e variegato che interagisce nel tempo: gente che lotta per un significato, per uno scopo, per vivere con dignità, per “vivere bene”, dignitosamente, in questo senso.

Voi, da parte dei movimenti popolari, assumete i compiti di sempre, motivati dall’amore fraterno che si ribella contro l’ingiustizia sociale. Quando guardiamo il volto di quelli che soffrono, il volto del contadino minacciato, del lavoratore escluso, dell’indigeno oppresso, della famiglia senza casa, del migrante perseguitato, del giovane disoccupato, del bambino sfruttato, della madre che ha perso il figlio in una sparatoria perché il quartiere è stato preso dal traffico di droga, del padre che ha perso la figlia perché è stata sottoposta alla schiavitù; quando ricordiamo quei “volti e nomi” ci si stringono le viscere di fronte a tanto dolore e ci commuoviamo, tutti ci commuoviamo. Perché “abbiamo visto e udito” non la fredda statistica, ma le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne. Questo è molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante. Questo ci tocca, ci commuove e cerchiamo l’altro per muoverci insieme. Questa emozione fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con la ragione: ha un “più” di senso che solo la gente capisce e che dà la propria particolare mistica ai veri movimenti popolari.

Voi vivete ogni giorno, impregnati, nell’intrico della tempesta umana. Mi avete parlato delle vostre cause, mi avete reso partecipe delle vostre lotte, già da Buenos Aires, e vi ringrazio. Voi, cari fratelli, lavorate molte volte nella dimensione piccola, vicina, nella realtà ingiusta che vi è imposta, eppure non vi rassegnate, opponendo una resistenza attiva al sistema idolatrico che esclude, degrada e uccide. Vi ho visto lavorare instancabilmente per la terra e l’agricoltura contadina, per i vostri territori e comunità, per la dignità dell’economia popolare, per l’integrazione urbana delle vostre borgate e dei vostri insediamenti, per l’autocostruzione di abitazioni e lo sviluppo di infrastrutture di quartiere, e in tante attività comunitarie che tendono alla riaffermazione di qualcosa di così fondamentale e innegabilmente necessario come il diritto alle “tre t”: terra, casa e lavoro.

Questo attaccamento al quartiere, alla terra, all’occupazione, al sindacato, questo riconoscersi nel volto dell’altro, questa vicinanza del giorno per giorno, con le sue miserie – perché ci sono, le abbiamo – e i suoi eroismi quotidiani, è ciò che permette di esercitare il mandato dell’amore non partendo da idee o concetti, bensì partendo dal genuino incontro tra persone, perché abbiamo bisogno di instaurare questa cultura dell’incontro, perché non si amano né i concetti né le idee, nessuno ama un concetto, un’idea, si amano le persone. Il darsi, l’autentico darsi viene dall’amare uomini e donne, bambini e anziani e le comunità: volti, volti e nomi che riempiono il cuore. Da quei semi di speranza piantati pazientemente nelle periferie dimenticate del pianeta, da quei germogli di tenerezza che lottano per sopravvivere nel buio dell’esclusione, cresceranno alberi grandi, sorgeranno boschi fitti di speranza per ossigenare questo mondo.

Vedo con gioia che lavorate nella dimensione di prossimità, prendendovi cura dei germogli; ma, allo stesso tempo, con una prospettiva più ampia, proteggendo il bosco. Lavorate in una prospettiva che non affronta solo la realtà settoriale che ciascuno di voi rappresenta e nella quale è felicemente radicato, ma cercate anche di risolvere alla radice i problemi generali di povertà, disuguaglianza ed esclusione.

Mi congratulo con voi per questo. E’ indispensabile che, insieme alla rivendicazione dei vostri legittimi diritti, i popoli e le loro organizzazioni sociali costruiscano un’alternativa umana alla globalizzazione escludente. Voi siete seminatori del cambiamento. Che Dio vi conceda coraggio, gioia, perseveranza e passione per continuare la semina! Siate certi che prima o poi vedremo i frutti. Ai dirigenti chiedo: siate creativi e non perdete mai il vostro attaccamento alla prossimità, perché il padre della menzogna sa usurpare nobili parole, promuovere mode intellettuali e adottare pose ideologiche, ma se voi costruite su basi solide, sulle esigenze reali e sull’esperienza viva dei vostri fratelli, dei contadini e degli indigeni, dei lavoratori esclusi e delle famiglie emarginate, sicuramente non sbaglierete.

La Chiesa non può e non deve essere aliena da questo processo nell’annunciare il Vangelo. Molti sacerdoti e operatori pastorali svolgono un compito enorme accompagnando e promuovendo gli esclusi di tutto il mondo, al fianco di cooperative, sostenendo l’imprenditorialità, costruendo alloggi, lavorando con abnegazione nel campo della salute, dello sport e dell’educazione. Sono convinto che la collaborazione rispettosa con i movimenti popolari può potenziare questi sforzi e rafforzare i processi di cambiamento.

Teniamo sempre nel cuore la Vergine Maria, umile ragazza di un piccolo villaggio sperduto nella periferia di un grande impero, una madre senza tetto che seppe trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù con un po’ di panni e una montagna di tenerezza. Maria è un segno di speranza per la gente che soffre le doglie del parto fino a quando germogli la giustizia. Prego la Vergine Maria, così venerata dal popolo boliviano, affinché faccia sì che questo nostro Incontro sia lievito di cambiamento.
3. Infine vorrei che pensassimo insieme alcuni compiti importanti per questo momento storico, perché vogliamo un cambiamento positivo per il bene di tutti i nostri fratelli e sorelle, questo lo sappiamo. Vogliamo un cambiamento che si arricchisca con lo sforzo congiunto dei governi, dei movimenti popolari e delle altre forze sociali, ed anche questo lo sappiamo. Ma non è così facile da definire il contenuto del cambiamento, si potrebbe dire il programma sociale che rifletta questo progetto di fraternità e di giustizia che ci aspettiamo. Non è facile definirlo. In tal senso, non aspettatevi da questo Papa una ricetta. Né il Papa né la Chiesa hanno il monopolio della interpretazione della realtà sociale né la proposta di soluzioni ai problemi contemporanei. Oserei dire che non esiste una ricetta. La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nel quadro di popoli che camminano cercando la propria strada e rispettando i valori che Dio ha posto nel cuore.

Vorrei, tuttavia, proporretre grandi compiti che richiedono l’appoggio determinante dell’insieme di tutti i movimenti popolari:

3.1. Il primo compito è quello di mettere l’economia al servizio dei popoli: gli esseri umani e la natura non devono essere al servizio del denaro. Diciamo NO a una economia di esclusione e inequità in cui il denaro domina invece di servire. Questa economia uccide. Questa economia è escludente. Questa economia distrugge la Madre Terra.

L’economia non dovrebbe essere un meccanismo di accumulazione, ma la buona amministrazione della casa comune. Ciò significa custodire gelosamente la casa e distribuire adeguatamente i beni tra tutti. Il suo scopo non è solo assicurare il cibo o un “decoroso sostentamento”. E nemmeno, anche se sarebbe comunque un grande passo avanti, garantire l’accesso alle “tre t” per le quali voi lottate. Un'economia veramente comunitaria, direi una economia di ispirazione cristiana, deve garantire ai popoli dignità, «prosperità senza escludere alcun bene» (Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et Magistra [15 maggio 1961], 3: AAS 53 (1961), 402). Quest’ultima frase la disse il Papa Giovanni XXIII cinquant’anni fa. Gesù dice nel Vangelo che a chi avrà dato spontaneamente un bicchier d’acqua a un assetato, ne sarà tenuto conto nel Regno dei cieli. Ciò comporta le “tre t”, ma anche l’accesso all’istruzione, alla salute, all’innovazione, alle manifestazioni artistiche e culturali, alla comunicazione, allo sport e alla ricreazione. Un’economia giusta deve creare le condizioni affinché ogni persona possa godere di un’infanzia senza privazioni, sviluppare i propri talenti nella giovinezza, lavorare con pieni diritti durante gli anni di attività e accedere a una pensione dignitosa nell’anzianità. Si tratta di un’economia in cui l’essere umano, in armonia con la natura, struttura l’intero sistema di produzione e distribuzione affinché le capacità e le esigenze di ciascuno trovino espressione adeguata nella dimensione sociale. Voi, e anche altri popoli, riassumete questa aspirazione in un modo semplice e bello: “vivere bene” – che non è lo stesso che “passarsela bene”.

Questa economia è non solo auspicabile e necessaria, ma anche possibile. Non è un’utopia o una fantasia. È una prospettiva estremamente realistica. Possiamo farlo. Le risorse disponibili nel mondo, frutto del lavoro intergenerazionale dei popoli e dei doni della creazione, sono più che sufficienti per lo sviluppo integrale di «ogni uomo e di tutto l’uomo» (Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], 14: AAS 59 (1967), 264). Il problema, invece, è un altro. Esiste un sistema con altri obiettivi. Un sistema che oltre ad accelerare in modo irresponsabile i ritmi della produzione, oltre ad incrementare nell’industria e nell’agricoltura metodi che danneggiano la Madre Terra in nome della “produttività”, continua a negare a miliardi di fratelli i più elementari diritti economici, sociali e culturali. Questo sistema attenta al progetto di Gesù, contro la Buona Notizia che ha portato Gesù.

L’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è semplice filantropia. E’ un dovere morale. Per i cristiani, l’impegno è ancora più forte: è un comandamento. Si tratta di restituire ai poveri e ai popoli ciò che appartiene a loro. La destinazione universale dei beni non è un ornamento discorsivo della dottrina sociale della Chiesa. E’ una realtà antecedente alla proprietà privata. La proprietà, in modo particolare quando tocca le risorse naturali, dev’essere sempre in funzione dei bisogni dei popoli. E questi bisogni non si limitano al consumo. Non basta lasciare cadere alcune gocce quando i poveri agitano questo bicchiere che mai si versa da solo. I piani di assistenza che servono a certe emergenze dovrebbero essere pensati solo come risposte transitorie, occasionali. Non potrebbero mai sostituire la vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale.

In questo cammino, i movimenti popolari hanno un ruolo essenziale, non solo nell’esigere o nel reclamare, ma fondamentalmente nel creare. Voi siete poeti sociali: creatori di lavoro, costruttori di case, produttori di generi alimentari, soprattutto per quanti sono scartati dal mercato mondiale.

Ho conosciuto da vicino diverse esperienze in cui i lavoratori riuniti in cooperative e in altre forme di organizzazione comunitaria sono riusciti a creare un lavoro dove c’erano solo scarti dell’economia idolatrica. E ho visto che alcuni sono qui. Le imprese recuperate, i mercatini liberi e le cooperative di raccoglitori di cartone sono esempi di questa economia popolare che emerge dall’esclusione e, a poco a poco, con fatica e pazienza, assume forme solidali che le danno dignità. Come è diverso questo rispetto al fatto che gli scartati dal mercato formale siano sfruttati come schiavi!

I governi che assumono come proprio il compito di mettere l’economia al servizio della gente devono promuovere il rafforzamento, il miglioramento, il coordinamento e l’espansione di queste forme di economia popolare e di produzione comunitaria. Ciò implica migliorare i processi di lavoro, provvedere infrastrutture adeguate e garantire pieni diritti ai lavoratori di questo settore alternativo. Quando Stato e organizzazioni sociali assumono insieme la missione delle “tre t” si attivano i principi di solidarietà e di sussidiarietà che permettono la costruzione del bene comune in una democrazia piena e partecipativa.

3.2. Il secondo compito è quello di unire i nostri popoli nel cammino della pace e della giustizia.

I popoli del mondo vogliono essere artefici del proprio destino. Vogliono percorrere in pace la propria marcia verso la giustizia. Non vogliono tutele o ingerenze in cui il più forte sottomette il più debole. Chiedono che la loro cultura, la loro lingua, i loro processi sociali e le loro tradizioni religiose siano rispettati. Nessun potere di fatto o costituito ha il diritto di privare i paesi poveri del pieno esercizio della propria sovranità e, quando lo fanno, vediamo nuove forme di colonialismo che compromettono seriamente le possibilità di pace e di giustizia, perché «la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli, in particolare il diritto all’indipendenza» (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 157).

I popoli dell’America Latina hanno partorito dolorosamente la propria indipendenza politica e, da allora, portano avanti quasi due secoli di una storia drammatica e piena di contraddizioni cercando di conquistare la piena indipendenza.

In questi ultimi anni, dopo tante incomprensioni, molti Paesi dell’America Latina hanno visto crescere la fraternità tra i loro popoli. I governi della regione hanno unito le forze per far rispettare la propria sovranità, quella di ciascun Paese e quella della regione nel suo complesso, che in modo così bello, come i nostri antichi padri, chiamano la “Patria Grande”. Chiedo a voi, fratelli e sorelle dei movimenti popolari, di avere cura e di accrescere questa unità. Mantenere l’unità contro ogni tentativo di divisione è necessario perché la regione cresca in pace e giustizia.

Nonostante questi progressi, ci sono ancora fattori che minano lo sviluppo umano equo e limitano la sovranità dei paesi della "Patria Grande" e di altre regioni del pianeta. Il nuovo colonialismo adotta facce diverse. A volte, è il potere anonimo dell’idolo denaro: corporazioni, mutuanti, alcuni trattati chiamati “di libero commercio” e l’imposizione di mezzi di “austerità” che aggiustano sempre la cinta dei lavoratori e dei poveri. Come Vescovi latino-americani lo denunciamo molto chiaramente nel Documento di Aparecida, quando affermano che «le istituzioni finanziarie e le imprese transnazionali si rafforzano fino al punto di subordinare le economie locali, soprattutto indebolendo gli Stati, che appaiono sempre più incapaci di portare avanti progetti di sviluppo per servire le loro popolazioni» (V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano [2007], Documento conclusivo, 66). In altre occasioni, sotto il nobile pretesto della lotta contro la corruzione, il traffico di droga e il terrorismo - gravi mali dei nostri tempi che richiedono un intervento internazionale coordinato - vediamo che si impongono agli Stati misure che hanno poco a che fare con la soluzione di queste problematiche e spesso peggiorano le cose.

Allo stesso modo, la concentrazione monopolistica dei mezzi di comunicazione che cerca di imporre alienanti modelli di consumo e una certa uniformità culturale è un altro modalità adottata dal nuovo colonialismo. Questo è il colonialismo ideologico. Come dicono i Vescovi dell’Africa, molte volte si pretende di convertire i paesi poveri in «pezzi di un meccanismo, parti di un ingranaggio gigantesco» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Ecclesia in Africa [14 settembre 1995], 52: AAS 88 [1996], 32-33; cfr Lett. enc. Sollicitudo rei socialis [30 dicembre 1987], 22: AAS 80 [1988], 539).
Occorre riconoscere che nessuno dei gravi problemi dell’umanità può essere risolto senza l’interazione tra gli Stati e i popoli a livello internazionale. Ogni atto di ampia portata compiuto in una parte del pianeta si ripercuote nel tutto in termini economici, ecologici, sociali e culturali. Persino il crimine e la violenza si sono globalizzati. Pertanto nessun governo può agire al di fuori di una responsabilità comune. Se vogliamo davvero un cambiamento positivo, dobbiamo accettare umilmente la nostra interdipendenza, cioè la nostra sana interdipendenza. Ma interazione non è sinonimo di imposizione, non è subordinazione di alcuni in funzione degli interessi di altri. Il colonialismo, vecchio e nuovo, che riduce i paesi poveri a semplici fornitori di materie prime e manodopera a basso costo, genera violenza, povertà, migrazioni forzate e tutti i mali che abbiamo sotto gli occhi... proprio perché mettendo la periferia in funzione del centro le si nega il diritto ad uno sviluppo integrale. E questo, fratelli, è inequità, e l’inequità genera violenza che nessuna polizia, militari o servizi segreti sono in grado di fermare.

Diciamo NO, dunque, a vecchie e nuove forme di colonialismo. Diciamo SÌ all’incontro tra popoli e culture. Beati coloro che lavorano per la pace.

Qui voglio soffermarmi su una questione importante. Perché qualcuno potrà dire, a buon diritto, “quando il Papa parla di colonialismo dimentica certe azioni della Chiesa”. Vi dico, a malincuore: si sono commessi molti e gravi peccati contro i popoli originari dell’America in nome di Dio. Lo hanno riconosciuto i miei predecessori, lo ha detto il CELAM, il Consiglio Episcopale Latinoamericano, e lo voglio dire anch’io. Come san Giovanni Paolo II, chiedo che la Chiesa «si inginocchi dinanzi a Dio ed implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli» (Bolla Incarnationis mysterium [29 novembre 1998], 11: AAS 91 [1999], 140). E desidero dirvi, vorrei essere molto chiaro, come lo era san Giovanni Paolo II: chiedo umilmente perdono, non solo per le offese della propria Chiesa, ma per i crimini contro le popolazioni indigene durante la cosiddetta conquista dell’America. E insieme a questa richiesta di perdono, per essere giusti, chiedo anche che ricordiamo migliaia di sacerdoti e vescovi, che opposero fortemente alla logica della spada con la forza della Croce. Ci fu peccato, ci fu peccato e abbondante, ma non abbiamo chiesto perdono, e per questo chiediamo perdono, e chiedo perdono, però là, dove ci fu il peccato, dove ci fu abbondante peccato, sovrabbondò la grazia mediante questi uomini che difesero la giustizia dei popoli originari.

Chiedo anche a tutti voi, credenti e non credenti, di ricordarvi di tanti vescovi, sacerdoti e laici che hanno predicato e predicano la Buona Notizia di Gesù con coraggio e mansuetudine, rispetto e in pace - ho detto vescovi, sacerdoti e laici; non mi voglio dimenticare delle suore, che anonimamente percorrono i nostri quartieri poveri portando un messaggio di pace e di bene -, che nel loro passaggio per questa vita hanno lasciato commoventi opere di promozione umana e di amore, molte volte a fianco delle popolazioni indigene o accompagnando i movimenti popolari anche fino al martirio. La Chiesa, i suoi figli e figlie, sono una parte dell’identità dei popoli dell’America Latina. Identità che, sia qui che in altri Paesi, alcuni poteri sono determinati a cancellare, talvolta perché la nostra fede è rivoluzionaria, perché la nostra fede sfida la tirannia dell’idolo denaro. Oggi vediamo con orrore come il Medio Oriente e in altre parti del mondo si perseguitano, si torturano, si assassinano molti nostri fratelli a causa della loro fede in Gesù. Dobbiamo denunciare anche questo: in questa terza guerra mondiale “a rate” che stiamo vivendo, c’è una sorta – forzo il termine – di genocidio in corso che deve fermarsi.

Ai fratelli e alle sorelle del movimento indigeno latinoamericano, lasciatemi esprimere il mio più profondo affetto e congratularmi per la ricerca dell’unione dei loro popoli e delle culture; unione che a me piace chiamare “poliedro”: una forma di convivenza in cui le parti mantengono la loro identità costruendo insieme una pluralità che, non mette in pericolo, bensì rafforza l’unità. La loro ricerca di questo multiculturalismo, che combina la riaffermazione dei diritti dei popoli originari con il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati, ci arricchisce e ci rafforza tutti.

3.3. Il terzo compito, forse il più importante che dobbiamo assumere oggi, è quello di difendere la Madre Terra.

La casa comune di tutti noi viene saccheggiata, devastata, umiliata impunemente. La codardia nel difenderla è un peccato grave. Vediamo con delusione crescente che si succedono uno dopo l’altro vertici internazionali senza nessun risultato importante. C’è un chiaro, preciso e improrogabile imperativo etico ad agire che non viene soddisfatto. Non si può consentire che certi interessi – che sono globali, ma non universali – si impongano, sottomettano gli Stati e le organizzazioni internazionali e continuino a distruggere il creato. I popoli e i loro movimenti sono chiamati a far sentire la propria voce, a mobilitarsi, ad esigere – pacificamente ma tenacemente – l’adozione urgente di misure appropriate. Vi chiedo, in nome di Dio, di difendere la Madre Terra. Su questo argomento mi sono debitamente espresso nella Lettera enciclica Laudato si', che credo vi sarà consegnata alla fine.

4. Per terminare, vorrei dire ancora una volta: il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E' soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento. Io vi accompagno. E ciascuno, ripetiamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessun popolo senza sovranità, nessuna persona senza dignità, nessun bambino senza infanzia, nessun giovane senza opportunità, nessun anziano senza una venerabile vecchiaia. Proseguite nella vostra lotta e, per favore, abbiate molta cura della Madre Terra. Credetemi, sono sincero, lo dico dal cuore: prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio nostro Padre di accompagnarvi e di benedirvi, che vi colmi del suo amore e vi difenda nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci fa stare in piedi: quella forza è la speranza. E una cosa importante: la speranza non delude! E, per favore, vi chiedo di pregare per me. E se qualcuno di voi non può pregare, con tutto rispetto, gli chiedo che mi pensi bene e mi mandi “buona onda”. Grazie!


INCONTRO CON IL CLERO, I RELIGIOSI, LE RELIGIOSE E I SEMINARISTI

Santuario Nazionale Mariano “El Quinche”, Ecuador

Mercoledì, 8 luglio 2015

Cari fratelli e sorelle,

porto ai piedi di Nostra Signora del Quinche quanto vissuto in questi giorni della mia visita; desidero affidare al suo cuore gli anziani e gli infermi, con i quali ho condiviso un momento presso la casa delle Sorelle della Carità, e anche tutti gli altri incontri che ho avuto in precedenza. Li lascio nel cuore di Maria, ma li deposito anche nei cuori di voi sacerdoti, religiosi e religiose, seminaristi, affinché, chiamati a lavorare nella vigna del Signore, siate custodi di tutto quanto questo popolo dell’Ecuador vive, soffre e gioisce.

Ringrazio Mons. Lazzari, il Padre Mina e la sorella Sandoval per le loro parole, che mi danno lo sunto per condividere con tutti voi alcune cose nella comune sollecitudine per il Popolo di Dio.

Nel Vangelo, il Signore ci invita ad accogliere la missione senza porre condizioni. È un messaggio importante che non è bene dimenticare e che, in questo Santuario dedicato alla Vergine della Presentazione, risuona con un accento particolare. Maria è un esempio di discepola per noi che, come lei, abbiamo ricevuto una vocazione. La sua risposata fiduciosa: «Avvenga per me secondo la tua Parola» (Lc 1,38), ci ricorda le sue parole alle nozze di Cana: «Qualsiasi cosa vi dica fatela» (Gv 2,5). Il suo esempio è un invito a servire come lei.

Nella Presentazione della Vergine possiamo trovare alcuni suggerimenti per la chiamata di ognuno di noi. La Vergine Bambina è stata un dono di Dio per i suoi genitori e per tutto il popolo che aspettava la liberazione. È un fatto che si ripete frequentemente nella Scrittura: Dio risponde al grido del suo popolo, inviando un bambino, debole, destinato a portare la salvezza e che, allo stesso tempo, rinnova la speranza dei genitori anziani. La parola di Dio ci dice che nella storia di Israele i giudici, i profeti, i re sono un dono del Signore per far giungere la sua tenerezza e la sua misericordia al suo popolo. Sono segno della gratuità di Dio: è Lui che li ha eletti, scelti e inviati. Questo ci libera dall’autoreferenzialità, ci fa comprendere che non ci apparteniamo più, che la nostra vocazione ci chiede di rinunciare ad ogni egoismo, ad ogni ricerca di guadagno materiale o di compensazione affettiva, come ci ha detto il Vangelo. Non siamo mercenari, ma servitori; non siamo venuti per essere serviti, ma per servire e lo facciamo con pieno distacco, senza bastone e senza bisaccia.

Alcune tradizioni concernenti il titolo di Nostra Signora del Quinche ci dicono che Diego de Robles realizzò l’immagine su incarico degli indigeni Lumbicí. Diego non lo faceva per devozione, lo faceva per un beneficio economico. Dato che non poterono pagarlo, la portò a Oyacachi e la barattò per delle tavole di cedro. Diego inoltre non accolse la richiesta di quella gente di fare anche un altare all’immagine, finché, cadendo da cavallo, si trovò in pericolo e sentì la protezione della Vergine. Ritornò al villaggio e fece il piedistallo dell’immagine. Anche ciascuno di noi ha fatto l’esperienza di un Dio che ci viene incontro all’incrocio, che nella nostra condizione di persone cadute, abbattute, ci chiama. Che la vanagloria e la mondanità non ci facciano dimenticare da dove Dio ci ha riscattati!, che Maria del Quinche ci faccia scendere dalle nostre ambizioni, dai nostri interessi egoistici, dalle eccessive attenzioni verso noi stessi!

L’«autorità» che gli apostoli ricevono da Gesù non è per il loro vantaggio: i nostri doni sono destinati a rinnovare e edificare la Chiesa. Non rifiutate di condividere, non fate resistenza a dare, non rinchiudetevi nella comodità, siate sorgenti che tracimano e rinfrescano, specialmente gli oppressi dal peccato, dalla delusione, dal rancore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 272).

Il secondo punto che mi richiama la Presentazione della Vergine è la perseveranza. Nella suggestiva iconografia mariana di questa festa, la Vergine Bambina si allontana dai suoi genitori salendo la scalinata del tempio. Maria non guarda indietro e, con chiaro riferimento al monito evangelico, cammina decisa in avanti. Anche noi, come i discepoli nel Vangelo, ci mettiamo in cammino per portare ad ogni popolo e luogo la Buona Notizia di Gesù. Perseveranza nella missione significa non andare girando di casa in casa, cercando dove ci trattino meglio, dove ci siano più mezzi e comodità. Richiede di unire la nostra sorte a quella di Gesù sino alla fine. Alcune relazioni delle apparizioni della Vergine del Quinche ci dicono che una “signora con un bambino in braccio” visitò per alcuni pomeriggi di seguito gli indigeni di Oyacachi quando questi cercavano rifugio dagli assalti degli orsi. Varie volte Maria andò incontro ai suoi figli; loro non le credevano, dubitavano di questa signora, però restarono ammirati dalla sua perseveranza nel ritornare ogni pomeriggio al calar del sole. Perseverare, anche se ci respingono, anche se viene la notte e crescono lo smarrimento e i pericoli. Perseverare in questo sforzo, sapendo che non siamo soli, che è il Popolo Santo di Dio che cammina.

In qualche modo, nell’immagine della Vergine bambina che sale al Tempio, possiamo vedere la Chiesa che accompagna il discepolo missionario. Insieme a lei ci sono i suoi genitori, che le hanno trasmesso la memoria della fede e ora generosamente la offrono al Signore perché possa continuare la sua strada; c’è la sua comunità rappresentata nel “seguito delle vergini”, nelle “sue compagne”, con le lampade accese (cfr Sal 44,15) e nelle quali i Padri della Chiesa vedono una profezia di tutti quelli che, imitando Maria, cercano con sincerità di essere amici di Dio, e ci sono i sacerdoti che la aspettano per riceverla e che ci ricordano che nella Chiesa i pastori hanno la responsabilità di accogliere con tenerezza e di aiutare a discernere ogni spirito e ogni chiamata.

Camminiamo uniti, sostenendoci gli uni gli altri, e chiediamo con umiltà il dono della perseveranza nel suo servizio.

Nostra Signora del Quinche è stata occasione di incontro, di comunione, per questo luogo che dai tempi dell’Impero Inca si era costituito come un insediamento multietnico. Com’è bello quando la Chiesa persevera nel suo sforzo per essere casa e scuola di comunione, quando generiamo quello che mi piace definire la cultura dell’incontro!

L’immagine della Presentazione ci dice che, una volta benedetta dai sacerdoti, la Vergine bambina si sedette sui gradini dell’altare e poi, alzatasi in piedi, danzò. Penso alla gioia che si esprime nelle immagini del banchetto di nozze, degli amici dello sposo, della sposa adornata con i suoi gioielli. È la gioia di chi ha scoperto un tesoro e ha lasciato tutto per averlo. Incontrare il Signore, vivere nella sua casa, partecipare alla sua intimità, impegna all’annuncio del Regno e a portare la salvezza a tutti. Attraversare le soglie del Tempio esige di trasformarci come Maria in templi del Signore e metterci in cammino per portarlo ai fratelli. La Vergine, come prima discepola missionaria, dopo l’annuncio dell’Angelo, partì senza indugio verso un villaggio della Giudea, per condividere questa immensa esultanza, la stessa che fece sussultare san Giovanni Battista nel grembo di sua madre. Chi ascolta la sua voce “sussulta di gioia” e diventa a sua volta predicatore della sua gioia. La gioia di evangelizzare muove la Chiesa, la fa uscire, come Maria.

Anche se sono molte le ragioni che si considerano per il trasferimento del santuario da Oyacachi a questo luogo, mi fermo su una in particolare: “Qui è ed è stato più accessibile, è più comodo e vicino a tutti”. Così ha inteso l’Arcivescovo di Quito, Fra Luis López de Solís, quando ordinò di edificare un Santuario capace di convocare e accogliere tutti. Una Chiesa in uscita è una Chiesa che si avvicina, che si adatta per non essere distante, che esce dalla sua comodità e ha il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo (Esort. ap. Evangelii gaudium, 20).

Ritorneremo ora alle nostre responsabilità, interpellati dal santo Popolo che ci è stato affidato. Tra queste, non dimentichiamo di aver cura, di animare e di educare la devozione popolare che si tocca con mano in questo Santuario ed è tanto diffusa in molti Paesi latinoamericani. Il popolo fedele ha saputo esprimere la fede col proprio linguaggio, manifestare i suoi più profondi sentimenti di dolore, dubbio, gioia, fallimento, gratitudine con diverse forme di pietà: processioni, veglie, fiori, canti che si trasformano in una magnifica espressione di fiducia nel Signore e di amore a sua Madre, che è anche la nostra.

A Quinche, la storia degli uomini e la storia di Dio confluiscono nella storia di una donna, Maria. E in una casa, la nostra casa, la sorella madre terra. Le tradizioni di questo titolo evocano i cedri, gli orsi, la fenditura nella roccia che qui è stata la prima casa della Madre di Dio. Ci parlano del passato di uccelli che avevano attorniato il luogo, e dell’oggi dei fiori che adornano i dintorni. Le origini di questa devozione ci portano in tempi quando era più semplice «la serena armonia con il creato […] per contemplare il Creatore, che vive tra di noi e in ciò ci circonda, e la cui presenza non deve essere costruita» (Enc. Laudato si’, 225), ma che ci si rivela nel mondo creato, nel suo Figlio amato, nell’Eucaristia che permette ai cristiani di sentirsi membra vive della Chiesa e di partecipare attivamente alla sua missione (cfr Documento di Aparecida, 264), in Nostra Signora del Quinche, che accompagnò da qui gli albori del primo annuncio della fede ai popoli indigeni. A lei affidiamo la nostra vocazione; che renda ciascuno di noi dono per il nostro popolo, che ci dia la perseveranza nell’impegno e nell’entusiasmo di uscire a portare il Vangelo di suo figlio Gesù – uniti ai nostri pastori – fino ai confini, fino alle periferie del nostro caro Ecuador.

INCONTRO CON IL MONDO DELLA SCUOLA E DELL'UNIVERSITÀ

Pontificia Università Cattolica dell’Ecuador, Quito
Martedì, 7 luglio 2015

Provo una grande gioia nel trovarmi questo pomeriggio insieme a voi in questa Pontificia Università dell’Ecuador, che da quasi settant’anni realizza e attualizza la fruttuosa missione educatrice della Chiesa al servizio degli uomini e delle donne della Nazione. Vi ringrazio per le gentili parole con cui mi avete accolto e mi avete trasmesso le inquietudini e le speranze che sorgono in voi davanti alla sfida, personale e sociale, dell’educazione. Ma vedo che ci sono alcuni nuvoloni all’orizzonte, spero che non venga la tempesta, non più di una pioggerella.

Nel Vangelo abbiamo ascoltato come Gesù, il Maestro, insegnava alla folla e al piccolo gruppo dei discepoli, adeguandosi alla loro capacità di comprensione. Lo faceva con parabole, come quella del seminatore (Lc 8,4-15). Il Signore è stato sempre “plastico” nel modo di insegnare. In modo che tutti potessero capire. Gesù non cercava di “sdottorare”. Al contrario, vuole arrivare al cuore dell’uomo, al suo ingegno, alla sua vita, affinché questa dia frutto.

La parabola del seminatore ci parla di coltivare. Ci indica i tipi di terreno, i tipi di semina, i tipi di frutto e la relazione che tra essi si crea. Già dalla Genesi, Dio sussurra all’uomo questo invito: coltivare e custodire (cfr Gen 2,15).

Non gli dà solamente la vita, gli dà la terra, il creato. Non gli dà solamente una compagna e infinite possibilità. Gli fa anche un invito, gli dà una missione. Lo invita a far parte della sua opera creatrice e gli dice: coltiva! Ti do le sementi, ti do la terra, l’acqua, il sole, ti do le tue mani e quelle dei tuoi fratelli. Ecco, è anche tuo. E’ un regalo, è un dono, è un’offerta. Non è qualcosa di acquistato, non è qualcosa che si compra. Ci precede e ci succederà.

E’ un dono dato da Dio affinché con Lui possiamo farlo nostro. Dio non vuole un creato per sé, per guardare sé stesso. Tutto al contrario. Il creato è un dono che dev’essere condiviso. E’ lo spazio che Dio ci dà per costruire con noi, per costruire un “noi”. Il mondo, la storia, il tempo, è il luogo dove andiamo a costruire il noi con Dio, il noi con gli altri, il noi con la terra. La nostra vita nasconde sempre questo invito, un invito più o meno consapevole, che permane sempre.

Notiamo però una particolarità. Nel racconto della Genesi, insieme alla parola “coltivare”, immediatamente ne dice un’altra: “custodire”, avere cura. Una si comprende a partire dall’altra. Una mano va verso l’altra. Non coltiva chi non ha cura e non ha cura chi non coltiva.

Non solo siamo invitati ad essere parte dell’opera creatrice coltivandola, facendola crescere, sviluppandola, ma siamo anche invitati ad averne cura, a proteggerla, custodirla. Oggi questo invito si impone a noi con forza. Non come una semplice raccomandazione, ma come un’esigenza che nasce «per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla…per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra» (Enc. Laudato si’, 2).

Esiste una relazione fra la nostra vita e quella della nostra madre terra. Fra la nostra esistenza e il dono che Dio ci ha dato. «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» (ibid., 48). Però così come diciamo “si degradano”, allo stesso modo possiamo dire “si sostengono e si possono trasfigurare”. E’ una relazione che custodisce una possibilità, tanto di apertura, di trasformazione, di vita, quanto di distruzione e di morte.

Una cosa è certa: non possiamo continuare a girare le spalle alla nostra realtà, ai nostri fratelli, alla nostra madre terra. Non ci è consentito ignorare quello che sta succedendo attorno a noi come se determinate situazioni non esistessero o non avessero nulla a che vedere con la nostra realtà. Non ci è lecito, di più, non è umano entrare nel gioco della cultura dello scarto.

Ancora una volta, si ripete con forza questa domanda di Dio a Caino: “Dov’è tuo fratello?”. Io mi chiedo se la nostra risposta continuerà ad essere: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9).

Io vivo a Roma, e d’inverno fa freddo. Succede che molto vicino al Vaticano si trovi, al mattino, un anziano morto di freddo. Non fa notizia in nessun giornale, in nessuna cronaca. Un povero che muore di freddo e di fame oggi non fa notizia, però se le borse delle principali capitali del mondo scendono di due o tre punti si monta un grande scandalo mondiale. Io mi domando: Dov’è tuo fratello? E vi chiedo di farvi ancora, ciascuno, questa domanda, e di farla all’Università, alla vostra Università Cattolica: Dov’è tuo fratello?

In questo contesto universitario sarebbe bello interrogarci sulla nostra educazione di fronte a questa terra che grida verso il cielo.

Le nostre scuole sono un vivaio, una possibilità, terra fertile per curare, stimolare e proteggere. Terra fertile assetata di vita.

Mi chiedo insieme con voi educatori: vegliate sui vostri studenti aiutandoli a sviluppare uno spirito critico, uno spirito libero, in grado di prendersi cura del mondo d’oggi? Uno spirito che sia in grado di trovare nuove risposte alle molte sfide che la società oggi pone all’umanità? Siete in grado di incoraggiarli a non ignorare la realtà che li circonda? A non ignorare ciò che succede intorno? Siete capaci di stimolarli a questo? A questo scopo bisogna farli uscire dall’aula, la loro mente bisogna che esca dall’aula, il loro cuore bisogna che esca dall’aula. Come entra nei diversi programmi universitari o nelle diverse aree di lavoro educativo la vita intorno a noi con le sue domande, i suoi interrogativi, le sue questioni? Come generiamo e accompagniamo il dibattito costruttivo, che nasce dal dialogo in vista di un mondo più umano? Il dialogo, quella parola-ponte, quella parola che crea ponti.

E c’è una riflessione che ci coinvolge tutti: le famiglie, le scuole, i docenti: come possiamo aiutare i nostri giovani a non identificare il diploma universitario come un sinonimo di statuspiù elevato, sinonimo di soldi, di prestigio sociale. Non sono sinonimi. Come li aiutiamo a identificare questa preparazione come un segno di maggiore responsabilità per i problemi di oggi, rispetto alla cura dei più poveri, rispetto alla salvaguardia dell’ambiente.

E voi, cari giovani che siete qui, presente e futuro dell’Ecuador, siete quelli che dovete fare chiasso. Con voi, che siete seme di trasformazione di questa società, vorrei chiedermi: sapete che questo tempo di studio, non è solo un diritto, ma anche un privilegio che voi avete? Quanti amici, conoscenti o sconosciuti, vorrebbero un posto in questo luogo e per diverse circostanze non lo hanno avuto? In quale misura il nostro studio ci aiuta e ci porta a solidarizzare con loro? Fatevi queste domande, cari giovani.

Le comunità educative hanno un ruolo vitale, un ruolo essenziale nella costruzione della cittadinanza e della cultura. Attenzione: non basta fare analisi, descrivere la realtà; è necessario dar vita ad ambiti, a luoghi di ricerca vera e propria, a dibattiti che generino alternative ai problemi esistenti, specialmente oggi, che è necessario andare al concreto.

Di fronte alla globalizzazione del paradigma tecnocratico che tende a credere«che ogni acquisto di potenza sia semplicemente progresso, accrescimento di sicurezza, di utilità, di benessere, di forza vitale e di pienezza di valori, come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia» (Enc. Laudato si’, 105), oggi a voi, a me, a tutti, ci viene chiesto che con urgenza ci affrettiamo a pensare, a cercare, a discutere sulla nostra situazione attuale – e dico urgenza –; che ci incoraggiamo a pensare su quale tipo di cultura vogliamo o pretendiamo non solo per noi ma per i nostri figli e i nostri nipoti. Questa terra l’abbiamo ricevuta in eredità, come un dono, come un regalo. Faremmo bene a chiederci: come la vogliamo lasciare? Quali indicazioni vogliamo imprimere all'esistenza? «A che scopo passiamo da questo mondo? Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo?» (ibid., 160), perché studiamo?

Le iniziative individuali sono sempre buone e fondamentali, ma ci viene chiesto di fare un ulteriore passo avanti: ci incoraggiano a guardare la realtà in modo organico e non frammentario; a porci domande che includono tutti noi, dal momento che tutti «sono relazionati tra loro» (ibid., 138). Non c’è diritto all’esclusione.

Come Università, come istituzioni educative, come docenti e studenti, la vita ci sfida a rispondere a queste due domande: perché questa terra ha bisogno di noi? Dov’è tuo fratello?

Lo Spirito Santo ci ispiri e ci accompagni, perché Egli ci ha chiamato, ci ha invitato, ci ha dato l’opportunità e, al tempo stesso, la responsabilità di dare il meglio di noi. Ci dia la forza e la luce di cui abbiamo bisogno. È lo stesso Spirito che il primo giorno della creazione aleggiava sulle acque cercando di trasformare, cercando di dare la vita. È lo stesso Spirito che ha dato ai discepoli la forza della Pentecoste. È lo stesso Spirito che non ci abbandona e diventa un tutt’uno con noi per trovare nuovi modi di vita. Che sia Lui il nostro compagno e maestro di viaggio. Grazie!

SANTA MESSA PER LE FAMIGLIE

OMELIA DEL SANTO PADRE

Parque de los Samanes, Guayaquil (Ecuador)
Lunedì, 6 luglio 2015

Il brano del Vangelo che abbiamo ora ascoltato (Gv 2,1-11) rappresenta il primo segno prodigioso che si realizza nella narrazione del Vangelo di Giovanni. La preoccupazione di Maria, divenuta supplica a Gesù: “Non hanno più vino” – Gli dice –, e il riferimento a “l’ora” si comprenderanno dopo, nei racconti della Passione.

Ed è bene che sia così, perché questo ci permette di scorgere l’ansia di Gesù di insegnare, accompagnare, guarire e rallegrare a partire da quell’appello di sua madre: “Non hanno più vino”.

Le nozze di Cana si rinnovano in ogni generazione, in ogni famiglia, in ognuno di noi e nei nostri sforzi perché il nostro cuore riesca a trovare stabilità in amori duraturi, in amori fecondi, in amori gioiosi. Facciamo spazio a Maria, “la madre”, come afferma l’Evangelista. E facciamo ora insieme a lei l’itinerario di Cana.

Maria è attenta, è attenta in quelle nozze già iniziate, è sollecita verso le necessità degli sposi. Non si isola in sé stessa, centrata nel proprio mondo, al contrario, l’amore la fa “essere verso” gli altri. Nemmeno cerca le amiche per commentando quello che sta succedendo e criticare la cattiva preparazione delle nozze. E perché sta attenta, con la sua discrezione, si rende conto che manca il vino. Il vino è segno di gioia, di amore, di abbondanza. Quanti adolescenti e giovani percepiscono che nelle loro case ormai da tempo non c’è più di quel vino! Quante donne sole e rattristate si domandano quando l’amore se n’è andato, quando l’amore è colato via dalla loro vita! Quanti anziani si sentono lasciati fuori dalle feste delle loro famiglie, abbandonati in un angolo e ormai senza il nutrimento dell’amore quotidiano dei loro figli, dei loro nipoti, pronipoti! La mancanza di quel vino può essere anche la conseguenza della mancanza di lavoro, delle malattie, delle situazioni problematiche che le nostre famiglie in tutto il mondo attraversano. Maria non è una madre che “pretende”, nemmeno è una suocera che vigila per divertirsi delle nostre inesperienze, dei nostri errori o delle disattenzioni. Maria, semplicemente, è madre! È presente, attenta e premurosa. E’ bello ascoltare questo: Maria è Madre. Provate a dirlo tutti insieme con me? Forza: Maria è Madre! Ancora: Maria è Madre! Ancora: Maria è Madre!

Maria però, in quel momento in cui si accorge che manca il vino, si rivolge con fiducia a Gesù. Questo significa cheMaria prega. Non va dal maggiordomo, ma presenta direttamente la difficoltà degli sposi a suo Figlio. La risposta che riceve sembra scoraggiante: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora».(v. 4). Ma intanto lei ha posto il problema nelle mani di Dio. La sua premura per le necessità degli altri anticipa “l’ora” di Dio. E Maria è parte di quell’ora, dal presepe fino alla croce. Lei, che seppe «trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una montagna di tenerezza» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 286), e ci ricevette come figli quando una spada le trafiggeva il cuore. Ella ci insegna a porre le nostre famiglie nelle mani di Dio; ci insegna a pregare, alimentando la speranza che ci indica che le nostre preoccupazioni sono anche preoccupazioni di Dio.

E pregare ci fa sempre uscire dal recinto delle nostre preoccupazioni, ci fa andare oltre quello che ci fa soffrire, quello che ci agita o che ci manca, e ci aiuta a metterci nei panni degli altri. La famiglia è una scuola dove il pregare ci ricorda anche che c’è un “noi”, che esiste un prossimo vicino, evidente, che vive sotto lo stesso tetto, che condivide con noi la vita e ha delle necessità.

E, alla fine, Maria agisce. Le parole: “Fate quello che vi dirà” (v. 5), rivolte a quelli che servivano, sono un invito rivolto anche a noi, a metterci a disposizione di Gesù, che è venuto per servire e non per essere servito. Il servizio è il criterio del vero amore. Chi ama serve, si mette al servizio degli altri. E questo si impara specialmente nella famiglia, dove ci facciamo per amore servitori gli uni degli altri. In seno alla famiglia, nessuno è escluso, tutti valgono lo stesso. Mi ricordo che una volta chiesero a mia mamma quale dei suoi cinque figli – perché noi siamo cinque fratelli – quale dei suoi cinque figli amava di più. E lei disse [mostra la mano]: “Come le dita, se mi pungono questo mi fa male lo stesso come se mi pungono questo”. Una madre ama i suoi figli come sono. E in una famiglia i fratelli si amano come sono. Nessuno è scartato.

Lì nella famiglia «si impara a chiedere permesso senza prepotenza, a dire “grazie” come espressione di sentito apprezzamento per le cose che riceviamo, a dominare l’aggressività o l’avidità, e lì si impara anche a chiedere scusa quando facciamo qualcosa di male, quando litighiamo. Perché in ogni famiglia ci sono litigi. Il problema è dopo, chiedere perdono. Questi piccoli gesti di sincera cortesia aiutano a costruire una cultura della vita condivisa e del rispetto per quanto ci circonda» (Enc. Laudato si’, 213). La famiglia è l’ospedale più vicino: quando uno è malato lo curano lì, finché si può. La famiglia è la prima scuola dei bambini, è il punto di riferimento imprescindibile per i giovani, è il miglior asilo gli anziani. La famiglia costituisce la grande ricchezza sociale, che altre istituzioni non possono sostituire, che dev’essere aiutata e potenziata, per non perdere mai il giusto senso dei servizi che la società presta ai suoi cittadini. In effetti, questi servizi che la società presta ai suoi cittadini non sono una forma di elemosina, ma un autentico “debito sociale” nei confronti dell’istituzione familiare, che è la base e che tanto apporta al bene comune.

La famiglia forma anche una piccola Chiesa, la chiamiamo “Chiesa domestica”, che, oltre a dare la vita, trasmette la tenerezza e la misericordia divina. Nella famiglia la fede si mescola al latte materno: sperimentando l’amore dei genitori si sente più vicino l’amore di Dio.

E nella famiglia – di questo siamo tutti testimoni – i miracoli si fanno con quello che c’è, con quello che siamo, con quello che uno ha a disposizione; e molte volte non è l’ideale, non è quello che sogniamo e neppure quello che “dovrebbe essere”. C’è un particolare che ci deve far pensare: il vino nuovo, quel vino così buono come dice il maestro di tavola alle nozze di Cana, nasce dalle giare della purificazione, vale a dire, dal luogo dove tutti avevano lasciato il loro peccato; nasce dal peggio: «dove abbondò il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20). In ciascuna delle nostre famiglie e nella famiglia comune che formiamo tutti, nulla si scarta, niente è inutile. Poco prima di cominciare l’Anno Giubilare della Misericordia, la Chiesa celebrerà il Sinodo Ordinario dedicato alle famiglie, per maturare un vero discernimento spirituale e trovare soluzioni e aiuti concreti alle molte difficoltà e importanti sfide che la famiglia oggi deve affrontare. Vi invito ad intensificare le vostre preghiere per questa intenzione, perché persino quello che a noi sembra impuro – come l’acqua delle giare –, che ci scandalizza o ci spaventa, Dio – facendolo passare attraverso la sua “ora” – lo possa trasformare in miracolo. La famiglia oggi ha bisogno di questo miracolo.

Tutta questa storia ebbe inizio perché “non avevano più vino”, e tutto si è potuto compiere perché una donna – la Vergine – è stata attenta, ha saputo porre nelle mani di Dio le sue preoccupazioni, ed ha agito saggiamente e con coraggio. Però c’è un particolare, non è da meno il dato finale: hanno gustato il vino migliore. E questa è la buona notizia: il vino migliore è quello che sta per essere bevuto, la realtà più amabile, la più profonda e la più bella per la famiglia deve ancora arrivare. Viene il tempo in cui gustiamo l’amore quotidiano, in cui i nostri figli riscoprono lo spazio che condividiamo e gli anziani sono presenti nella letizia di ogni giorno. Il vino migliore è ‘in speranza’, sta per venire per ogni persona che accetta il rischio di amare. E nella famiglia bisogna correre il rischio dell’amore, bisogna arrischiarsi ad amare. E il migliore dei vini sta per venire, anche se tutte le possibili variabili e le statistiche dicessero il contrario. Il vino migliore sta per venire per quelli che oggi vedono crollare tutto. Sussurratevelo fino a crederci: il vino migliore sta per arrivare. Sussurratevelo ciascuno nel suo cuore: il vino migliore sta per venire. E sussurratelo ai disperati e a quelli con poco amore: abbiate pazienza, abbiate speranza, fate come Maria, pregate, agire, aprite il cuore, perché il migliore dei vini sta per venire. Dio si avvicina sempre alle periferie di coloro che sono rimasti senza vino, di quelli che hanno da bere solo lo scoraggiamento; Gesù ha una preferenza per versare il migliore dei vini a quelli che per una ragione o per l’altra ormai sentono di avere rotto tutte le anfore.

Come ci invita a fare Maria, facciamo “quello che Dio ci dice” (cfr Gv 2,5). Fate quello che Lui vi dice. E siamo grati perché in questo nostro tempo e in questa nostra ora, il vino nuovo, il migliore, ci fa recuperare la gioia della famiglia, la gioia di vivere in famiglia. Così sia.

VISITA ALLA CATTEDRALE DI QUITO

SALUTO DELSANTO PADRE ALLE PERSONE RIUNITE NELLA PIAZZA DELLA CATTEDRALE

Lunedì, 6 luglio 2015

Cari fratelli,

Vengo a Quito come pellegrino, per condividere con voi la gioia di evangelizzare. Sono partito dal Vaticano salutando l’immagine di santa Marianna di Gesù, che dall’abside della Basilica di San Pietro veglia sul cammino che il Papa tante volte compie. Ad essa ho raccomandato anche i frutti di questo viaggio, chiedendole che tutti noi possiamo imparare dal suo esempio. Il suo sacrificio e la sua eroica virtù si rappresentano con un giglio. Tuttavia, nella statua dietro la Basilica di San Pietro viene ritratta con un intero mazzo di fiori, perché presenta al Signore, nel cuore della Chiesa, insieme al suo, i fiori di tutti voi, quelli di tutto l’Equador.

I santi ci invitano a imitarli, a porsi alla loro scuola, come hanno fatto santa Narcisa di Gesù e la beata Mercedes di Gesù Molina, interpellate dall’esempio di santa Marianna. A quanti oggi sono qui e soffrono o hanno sofferto come orfani, a coloro che, pur essendo ancora piccoli, hanno dovuto badare ai fratelli, a quanti si impegnano ogni giorno nel curare gli ammalati o gli anziani, dico che così fece santa Marianna e così la imitarono Narcisa e Mercedes. Non è difficile se Dio è con noi. Esse non hanno compiuto cose eccezionali agli occhi del mondo. Solo hanno amato molto e lo hanno dimostrato nel quotidiano fino a toccare la carne sofferente di Cristo nel popolo (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 24). E non l’hanno fatto da sole, ma insieme ad altri.

Per costruire questa cattedrale, i lavori di trasporto, di intaglio e di muratura sono stati fatti secondo le nostre usanze, quelle dei popoli autoctoni; un lavoro di tutti a favore della comunità, un lavoro anonimo, senza cartelli pubblicitari né applausi. Voglia Dio che, come le pietre di questa cattedrale, anche noi ci poniamo sulle spalle le necessità degli altri, aiutando a edificare o restaurare la vita di tanti fratelli che non hanno forze per costruirla o l’hanno vista crollare.

Oggi sono qui con voi, che mi donate il giubilo dei vostri cuori: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie» (Is 52,7). E’ la bellezza che siamo chiamati a diffondere, come buon profumo di Cristo: la nostra preghiera, le nostre buone opere, il nostro sacrificio per i più bisognosi. È la gioia di evangelizzare, e voi «sapendo queste cose siete beati se le mettete in pratica» (Gv 13,17).

Dio vi benedica!

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