100 anni di gratitudine (1) - Sentirsi a casa

In che modo è possibile aiutare le persone a cambiare in meglio? Mino in questo testo spiega con qualche esempio qual è il valore della testimonianza. “100 anni di gratitudine” è una raccolta di testimonianze che accompagnano le Assemblee regionali dell’Opus Dei per il 2024.

Nel mio quartiere c’è un centro estetico, uno dei tanti che sono sorti negli ultimi anni, la cui insegna al neon, rossa su sfondo bianco, lampeggia ammiccante quando il buio cala sulla città: Il piacere di piacersi. Penso che pochi avrebbero potuto riassumere meglio il concetto mainstream del momento. È senz’altro vero che l’offerta di servizi rivolti alla persona sia divenuto un panorama sempre più affollato rispetto a qualche decennio fa. Nel bilancio familiare sono sempre più presenti voci di spesa che fanno riferimento al wellness, alla mindfulness, a percorsi volti alla scoperta di sé, dell’armonia interiore, di uno stile di vita appagante.

La nuova anacoresi senza relazione

Di tanto in tanto questi itinerari volti a conseguire un equilibrio interiore per il raggiungimento della felicità personale vengono incastonati in cicli di meditazioni, quando non di veri e propri corsi di ritiro “laici”. Questa nuova anacoresi, questa nuova proposta di ritirarsi in solitudine per dedicarsi a sé stessi, al proprio benessere, risulta però insufficiente nella misura in cui non considera la dimensione relazionale come via essenziale per la realizzazione della persona umana.

Quelle che vengono proposte sono vie senza ritorno

Quelle che vengono proposte sono vie senza ritorno, stretti sentieri che si inerpicano lungo la strada dell’atteggiamento di colui il quale risolve ogni realtà in sé medesimo o dal punto di vista pratico (ponendo a metro delle azioni il proprio interesse personale) o da quello gnoseologico-metafisico (considerando l’universo come rappresentazione della propria, grandiosa, coscienza).

Il progresso senza dimensione divina

Nel cuore di ogni donna e di ogni uomo, tuttavia, ruggisce impetuosa una sete di assoluto che richiede una fonte di un’acqua inestinguibile che disseta senza, tuttavia, saziare mai. Ecco perché rimane inevasa in tutta la sua intensità, la domanda di senso per rispondere alla quale lasciamo che siano le parole di san Josemaría a guidarci quando, con visione profetica, nel 1966 ci scriveva: «Volgete però lo sguardo ai popoli che hanno avuto un incremento quasi incredibile di cultura e di progresso; che, in pochi anni, hanno raggiunto uno sviluppo tecnologico meraviglioso che garantisce un elevato livello di vita. Le loro ricerche – è stupendo come Dio aiuta l’intelligenza umana – avrebbero dovuto spingerli ad avvicinarsi a Dio, perché, nella misura in cui attingono a ciò che è vero e a ciò che è buono, provengono da Dio e conducono a Lui. Tuttavia, così non è: nonostante il progresso, nemmeno loro sono più umani. 

Il culmine del progresso è già stato raggiunto: è Cristo


Non possono esserlo perché, se manca la dimensione divina, la vita umana, nonostante tutta la perfezione materiale raggiunta, è vita animale. Solo quando si apre alla prospettiva religiosa, l’uomo realizza la sua aspirazione a distinguersi dalle bestie: la religione, da un certo punto di vista, è come l’estrema ribellione dell’uomo che non vuole essere un bruto. Sul piano religioso, figlie e figli miei, non c’è progresso, non ci può essere superamento. Il culmine del progresso è già stato raggiunto: è Cristo, alfa e omega, principio e fine. Nella vita spirituale non c’è nulla da inventare; si può solo lottare per immedesimarsi con Cristo, essere altri Cristi,
ipse Christus, innamorarsi e vivere di Cristo che è lo stesso ieri e oggi e per sempre: Iesus Christus heri et hodie, ipse et in saecula (Eb 13,8). Capite perché vi ripeto continuamente che non ho altra ricetta da darvi se non la santità personale? Non c’è altro figli miei, non c’è nient’altro»[1].

Possiamo chiudere gli occhi e immaginare per un momento di sentire la voce di san Josemaría, con quel timbro pieno e vibrante che la caratterizzava, mentre ci legge le sue parole: si può solo lottare per immedesimarsi in Cristo… non ho altra ricetta da darvi se non la santità personale? Non c’è altro, figli miei, non c’è nient’altro!

La sfida è e sarà sempre questa: santità personale.

Si tratta di un punto decisivo nella misura in cui appare sempre più complessa e faticosa la ricerca di senso alla quale, apparentemente, pochi oggi riescono a rispondere; quella ricerca del significato ultimo della propria vita che ha come ostacolo, a prima vista insormontabile, la morte che attende ciascuno, vista sempre più come un incidente occasionale nella vita dei singoli e non come il compimento di un senso. Insieme alla morte, la malattia e il dolore fisico, al punto da invocare che qualcuno ce ne liberi staccandoci la spina.

La sfida è e sarà sempre questa: santità personale.

Perché, allora, il tema della santità personale di ciascuna e di ciascuno è decisivo per aiutare i singoli e l’umanità intera nella ricerca di un significato? È presto detto. Il motivo risiede nel fatto che la felicità personale, la piena realizzazione di ognuno di noi, non è cosa che possa essere insegnata in via astratta e teorica: piuttosto è frutto di un apprendimento sul campo, vero e proprio training on the job. La donna e l’uomo moderni non hanno bisogno di insegnanti, di qualcuno che da una cattedra dispensi bei ragionamenti, bensì di testimoni, di una galleria umana autentica e credibile perché vissuta e, per questo, degna di essere imitata.

A tal proposito ecco la storia di uno studente universitario, oggi persona matura, che tempo fa prestava il suo aiuto come tutor per un club di ragazzi di scuola media. Figlio unico di una famiglia della media borghesia, gli capitava, durante le attività estive del club, di fermarsi spesso a cena presso una chiassosissima famiglia numerosa che contava, oltre ai genitori, entrambi soprannumerari dell’Opus Dei, sette figli. Quelle cene, quello stile di vita, quel modo di essere famiglia lasciarono impresso in lui qualcosa di più di una sensazione, di un ricordo piacevole. Qualche tempo dopo, nel corso di un colloquio di direzione spirituale, emerse con chiarezza la decisione di imprimere alla sua vita una svolta decisiva; con l’entusiasmo e la capacità di non avere mezze misure tipici di chi ha vent’anni affermava: «vorrei sposarmi e mettere su famiglia come i signori che ho conosciuto la scorsa estate. Che belle persone, che bella famiglia!».

In quella casa mi sentivo a casa

Oggi il nostro protagonista è felicemente sposato e ha tre splendidi figli. Quello che ci interessa rilevare, ai fini del nostro ragionamento, è che il giovane ragazzo di allora ha visto quel matrimonio, quella famiglia, e nessuno gli ha mai fatto ragionamenti sul senso della vita coniugale, sulla sua indissolubilità, o altre teorie. 

il giovane ragazzo di allora ha visto quel matrimonio

Cosa ha attratto, fino al punto di cambiargli la vita, quel giovane studente di giurisprudenza? Semplice: lo stile di vita di quei due soprannumerari, figli fedeli di san Josemaría, che, e non è poco, si sono limitati a vivere la loro vita, senza pretendere di salire in cattedra, di insegnare alcunché. Sono stati, molto semplicemente, irresistibili nella loro bellezza, una bellezza al tempo stesso tanto semplice nel loro modo di essere parchi (il nostro amico, figlio unico, abituato a essere coccolato con piatti ricercati ricorda con nettezza l’essenzialità di quelle cene: un’unica pietanza per tutti) quanto profonda nella capacità di fare spazio nel loro cuore ai problemi e alle esigenze di tutti.

In quella valle il male non era mai penetrato

Le parole esatte del protagonista di questa storia sono: “in quella casa io mi sentivo a casa”. Potremmo dire, allora, che una prima sfida nel vivere, oggi, il messaggio di san Josemaría consiste nel riuscire far sì che gli altri, coloro con cui incrociamo le nostre vite, riescano a sentirsi a casa. Chiediamo aiuto a Tolkien, per un momento, nell’ispirarci a tal proposito: «La sua casa era perfetta, che vi piacesse il cibo, o il sonno, o il lavoro, o i racconti, o il canto, o che preferiste soltanto star seduti a pensare, o anche se amaste una piacevole combinazione di tutte queste cose. In quella valle il male non era mai penetrato»[2]: è la descrizione che Tolkien fa di Gran Burrone e che prendiamo in prestito per il nostro ragionamento. Come dice il Padre, mons. Fernando Ocáriz, la prospettiva del centenario dell’Opera offre una nuova possibilità di «riconoscere l’amore di Dio nella nostra vita e portarlo agli altri, specialmente ai più bisognosi»[3]. La sfida, allora, è questa: cercare di fare in modo che la benedetta ordinarietà delle nostre vite, qualunque essa sia, ci preservi dal male e possa essere, senza protagonismi noiosi bensì con piena rettitudine di intenzione dal momento che Deo omnis gloria, ispiratrice per l’uomo contemporaneo che è più che mai bisognoso di un luogo che possa dirsi casa, vale a dire una valle, un rifugio tra i monti impervi dell’esistenza. Questa potenza espressiva delle nostre vite ordinarie, questa capacità, al tempo stesso, di essere argine al male e via per il Cielo non sarebbe stata pensabile senza il messaggio di san Josemaría circa la “santificabilità” del lavoro professionale e della vita ordinaria.

La sfida è quella di riuscire a contagiare, una per una, le vite delle persone con cui ci incrociamo. Il rapporto uno ad uno, cuore a cuore, è il balsamo migliore per curare le ferite della donna e dell’uomo moderni e la sfida consiste, come facevano i due soprannumerari delle cene estive del nostro racconto, nel nutrire per i nostri amici più amore di quanto ne possa servire. In questo modo tutti potremo sentirci a casa, indipendentemente da quali possano essere stati gli errori, grandi o piccoli, che possiamo aver commesso perché ciascuno è migliore della cosa peggiore che può aver commesso[4].

Figli visibili di Dio

In occasione della somministrazione di un test di autovalutazione delle meta-competenze durante una seduta di tutoring, emergeva per Carlo la necessità di migliorare nell’ottimismo. Da un esame più approfondito scaturiva che la mancanza di ottimismo affondava le sue radici nel passato: si trattava di una strategia vitale messa in essere da Carlo da quando i suoi genitori si erano, in maniera un po’ burrascosa, separati. La vicenda dei suoi genitori aveva lasciato in lui, tra le altre, un’amara delusione in particolare nei confronti di suo padre, figura che Carlo aveva sempre considerato come riferimento. Da quel momento, allo scopo di limitare le possibili ulteriori sofferenze nella sua vita, il nostro protagonista aveva deciso di “non credere più nel genere umano e in particolare nelle relazioni tra le persone”. Carlo, prima di allora, non aveva mai sentito parlare dell’Opus Dei ed era lontano non solo dalla sua spiritualità, bensì dalla Chiesa cattolica perché “pur essendo battezzato e cresimato, non credo nei sacerdoti perché mi hanno deluso”. Il primo passo è stato quello di ricercare motivi per essere grato, contento, indipendentemente dalla vicenda dei suoi genitori.

come è possibile che ci siano tutte queste cose molto belle?

È così che Carlo ha scoperto che si può essere grati per una bella giornata, per il verde degli alberi, per il blu del cielo, per il vento che soffia, per la luce che illumina, per il sangue che scorre nelle vene, per gli occhi che vedono, per il cuore che batte… ha, cioè, iniziato a non dare per scontato quello che lo circondava. Il passo successivo è stato quello di unificare tanta bellezza dandole un Autore: come è possibile che ci siano tutte queste cose molto belle? Chi le ha fatte e perché? Dal valore del bello ha iniziato, dunque, a porsi domande più profonde sul senso dell’esistenza del tutto fino ad arrivare ad affrontare l’argomento per lui più importante: solo un Padre può essere così munifico e al tempo stesso tenero al punto da regalarmi un universo così bello. Non un generico Creatore, bensì un Padre. Ma un Padre non è un’entità astratta, infatti si può essere padri solo se esiste un figlio: è il figlio, infatti, che determina l’esistenza del padre. 

Il ragionamento di Carlo è stato: “il creato è una cosa che si vede, si tocca. Immaginare che il Padre abbia creato l’universo visibile per il Figlio, che è invisibile in quanto puro spirito, è un non senso. Allora vuol dire che l’universo visibile è stato creato per i suoi figli visibili, cioè per me! Quindi io sono figlio!”. La sua inquieta ricerca di una figura paterna stava giungendo, dopo tanti anni, a un punto stabile, fermo, sicuro: a casa.

Il passo successivo è stato, nelle settimane seguenti, sapere che c’era stata anche un’altra persona che aveva fatto la sua stessa scoperta, che si chiama san Josemaría e ha fondato l’Opus Dei a fondamento del cui spirito vi è proprio la filiazione divina, cioè la percezione con particolare evidenza dell’essere figli di Dio. Carlo ha, così, iniziato un suo personale itinerario di approfondimento della figura di san Josemaría, tutt’ora in corso. Dopo molti anni ha ripreso a confessarsi, frequenta la Messa domenicale e ha iniziato a fare dieci minuti di orazione al giorno con l’idea di parlare con Gesù e chiedergli di sistemare alcune cose che nella sua vita non vanno e, in particolare, di trovare la forza di perdonare suo padre. Carlo non è molto lontano da casa e san Josemaría sarà custode dei suoi prossimi passi perché è questa un’altra caratteristica dei padri: non lasciano mai da soli i figli.

Quali sono le sfide di oggi per chi cerca di vivere ogni giorno il messaggio di san Josemaría? Essere fedeli, di una fedeltà meticolosa e al tempo stesso viva ed affettuosa alle sue parole: «Siamo stati scelti dall’amore di Dio, figlie e figli carissimi, per vivere il cammino dell’Opera, sempre giovane e sempre nuovo, questa avventura umana e soprannaturale che consiste nel corredimere con Cristo, nella stretta e intima partecipazione all’impazienza di Gesù di propagare il fuoco che era venuto a gettare sulla terra. Cristo non è fallito: la sua dottrina e la sua vita stanno continuando a fecondare il mondo. La sua redenzione è sufficiente e sovrabbondante ma ci tratta da esseri intelligenti e liberi e ha voluto che, misteriosamente, diamo compimento a ciò che manca nella nostra carne, nella nostra vita, della sua passione pro corpore eius, quod est Ecclesia. La redenzione è in atto e voi ed io siamo corredentori. Vale la pena giocarsi l’intera esistenza e saper soffrire per amore»[5].


[1] San Josemaría, Lettera n. 29 (Sulla missione dell’opera di san Gabriele nell’evangelizzazione del mondo e nella promozione della santità dei fedeli laici), paragrafo n.6.

[2] J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit, Adelphi, Milano 1973, pag. 67.

[3] Messaggio del Padre, 10-VI-2021.

[4] Il concetto è tratto dal film End of justice - Nessuno è innocente del 2017. Il protagonista, Denzel Washington, dice: “Siamo migliori della cosa peggiore che abbiamo fatto”.

[5] Lettera n. 29 - cit., paragrafo n.1.


“100 anni di gratitudine” è una raccolta di testimonianze che accompagnano le Assemblee regionali dell’Opus Dei per il 2024. Clicca qui per leggere le testimonianze pubblicate finora, o per approfondire i temi delle Assemblee regionali.