Viaggio apostolico di papa Francesco in Mozambico, Madagascar e Mauritius

Dal 4 al 10 settembre 2019 papa Francesco si trova in Africa per visitare i fedeli del Mozambico, del Madagascar e della Repubblica di Mauritius. Questo articolo viene aggiornato quotidianamente con le parole del Papa.

Programma

Giovedì, 5 settembre - Mozambico

Incontro con le Autorità, la Società civile e il Corpo Diplomatico nel Palazzo Ponta Vermelha, Maputo

Incontro interreligioso con i Giovani nel Pavillon Maxaquene

Incontro con i Vescovi, Sacerdoti, Religiosi/e, Consacrati e Seminaristi, Catechisti e Animatori nella Cattedrale dell’Immacolata Concezione

Venerdì, 6 settembre - Mozambico/Madagascar

Visita all'Ospedale di Zimpeto, Maputo

Santa Messa nello Stadio di Zimpeto, Maputo

Sabato, 7 settembre - Madagascar

Incontro con le Autorità, la Società civile e il Corpo Diplomatico nel Ceremony Building, Antananarivo

Ora Media nel Monastero delle Carmelitane Scalze

Incontro con i Vescovi del Madagascar nella Cattedrale di Andohalo

Veglia con i Giovani nel Campo Diocesano di Soamandrakizay

Domenica, 8 settembre - Madagascar

Santa Messa nel Campo Diocesano di Soamandrakizay

Angelus

Visita alla Città dell'Amicizia - Akamasoa

Preghiera per i Lavoratori nel Cantiere di Mahatzana

Incontro con i Sacerdoti, Religiosi/e, Consacrati e Seminaristi nel Collège Saint Michel

Lunedì, 9 settembre - Madagascar/Mauritius

Santa Messa al Monumento di Maria Regina della Pace

Incontro con le Autorità, la Società civile e il Corpo Diplomatico nel Palazzo Presidenziale


Giovedì, 5 settembre

Incontro con le autorità, la società civile e il corpo diplomatico, Maputo, Mozambico

Grazie, Signor Presidente, per le Sue parole di benvenuto nonché per il gentile invito a visitare la nazione. Sono contento di trovarmi di nuovo in Africa e iniziare questo viaggio apostolico da questo Paese, tanto benedetto per la sua bellezza naturale, come pure per la sua grande ricchezza culturale che aggiunge, alla ben nota gioia di vivere del vostro popolo, la speranza in un futuro migliore.

Saluto cordialmente i membri del Governo, del Corpo Diplomatico e i rappresentanti della società civile qui presenti. Nelle vostre persone desidero incontrare e salutare con affetto l’intero popolo mozambicano che, dal fiume Rovuma fino a Maputo, ci apre le porte per favorire un rinnovato futuro di pace e riconciliazione.

Voglio che le mie prime parole di vicinanza e di solidarietà siano rivolte a tutti coloro sui quali si sono abbattuti recentemente i cicloni Idai e Kenneth, le cui devastanti conseguenze continuano a pesare su tante famiglie, specialmente nei luoghi in cui la ricostruzione non è stata ancora possibile e richiede una speciale attenzione. Purtroppo non potrò recarmi personalmente da voi, ma voglio che sappiate che condivido la vostra angoscia, il vostro dolore e anche l’impegno della comunità cattolica nell’affrontare una così dura situazione. In mezzo alla catastrofe e alla desolazione, chiedo alla Provvidenza che non manchi la sollecitudine di tutti gli attori civili e sociali che, ponendo la persona al centro, siano in grado di promuovere la necessaria ricostruzione.

Desidero anche esprimere l’apprezzamento, mio e di gran parte della comunità internazionale, per gli sforzi che, da decenni, si vanno compiendo affinché la pace torni ad essere la norma, e la riconciliazione la via migliore per affrontare le difficoltà e le sfide che incontrate come nazione. In questo spirito e con questo proposito, circa un mese fa avete firmato nella Serra della Gorongosa l’accordo di cessazione definitiva delle ostilità militari tra fratelli mozambicani. Una pietra miliare, che salutiamo e speriamo come decisiva, fissata da persone coraggiose sulla via della pace, che parte da quell’Accordo Generale del 1992 a Roma.

Quante cose sono passate dalla firma dello storico trattato che ha sigillato la pace e ha dato i suoi primi germogli! Sono questi germogli che sostengono la speranza e danno fiducia per non lasciare che il modo di scrivere la storia sia la lotta fratricida, bensì la capacità di riconoscersi come fratelli, figli di una stessa terra, amministratori di un destino comune. Il coraggio della pace! Un coraggio di alta qualità: non quello della forza bruta e della violenza, ma quello che si attua nella ricerca instancabile del bene comune (cfr Paolo VI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 1973).

Voi conoscete la sofferenza, il lutto e l’afflizione, ma non avete voluto che il criterio regolatore delle relazioni umane fosse la vendetta o la repressione, né che l’odio e la violenza avessero l’ultima parola. Come ricordava il mio predecessore San Giovanni Paolo II durante la sua visita nel vostro Paese nel 1988, con la guerra «molti uomini, donne e bambini soffrono perché non hanno una casa dove abitare, un’alimentazione sufficiente, delle scuole dove istruirsi, degli ospedali dove curarsi, delle chiese dove riunirsi a pregare e dei campi dove impiegare la manodopera. Molte migliaia di persone sono costrette a spostarsi alla ricerca di sicurezza e di mezzi di sopravvivenza; altre si rifugiano nei Paesi vicini. [...] “No alla violenza e sì alla pace!”» (Discorso nella visita al Presidente della Repubblica, 16 settembre 1988, n. 3).

Durante tutti questi anni, avete sperimentato che la ricerca della pace duratura – una missione che coinvolge tutti – richiede un lavoro duro, costante e senza sosta, poiché la pace è «come un fiore fragile, che cerca di sbocciare tra le pietre della violenza» (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 2019), e quindi richiede che si continui ad affermare con determinazione ma senza fanatismo, con coraggio ma senza esaltazione, con tenacia ma in maniera intelligente: no alla violenza che distrugge, sì alla pace e alla riconciliazione.

Come sappiamo, la pace non è solo assenza di guerra, ma l’impegno instancabile – soprattutto di quanti occupiamo un ufficio di maggiore responsabilità – di riconoscere, garantire e ricostruire concretamente la dignità, spesso dimenticata o ignorata, dei nostri fratelli, perché possano sentirsi protagonisti del destino della propria nazione. Non possiamo perdere di vista che, «senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 59).

La pace ha reso possibile lo sviluppo del Mozambico in diversi settori. Promettenti sono i progressi compiuti nell’istruzione e nella salute. Vi incoraggio a portare avanti il lavoro di consolidamento delle strutture e delle istituzioni necessarie per far sì che nessuno si senta abbandonato, in particolare i vostri giovani, che costituiscono gran parte della popolazione. Essi sono non solo la speranza di questa terra, sono il presente che interpella, ricerca e ha bisogno di trovare strade dignitose che consentano loro di sviluppare tutti i loro talenti; sono un potenziale per seminare e far crescere la tanto desiderata amicizia sociale.

Una cultura di pace richiede «un costante processo nel quale ogni nuova generazione si vede coinvolta» (ibid., 220). Perciò il percorso dev’essere tale da favorire la cultura dell’incontro e da esserne totalmente impregnato: riconoscere l’altro, stringere legami, gettare ponti. In questo senso, è essenziale mantenere viva la memoria, quale via che apre al futuro, quale sentiero che conduce a cercare obiettivi comuni, valori condivisi, idee che favoriscano il superamento di interessi settoriali, corporativi o di parte, affinché le ricchezze della vostra Nazione siano messe al servizio di tutti, specialmente dei più poveri. Voi avete una coraggiosa e storica missione da compiere: non smettete di impegnarvi finché ci saranno bambini e adolescenti senza istruzione, famiglie senza casa, lavoratori senza occupazione, contadini senza terra... Queste sono le basi di un futuro di speranza, perché futuro di dignità! Queste sono le armi della pace.

La pace ci invita anche a curare la nostra casa comune. Da questo punto di vista, il Mozambico è una nazione benedetta, e voi in modo speciale siete invitati a prendervi cura di questa benedizione. La difesa della terra è anche la difesa della vita, che richiede speciale attenzione quando si constata una tendenza a saccheggiare e depredare, spinta da una bramosia di accumulare che, in genere, non è neppure coltivata da persone che abitano queste terre, né viene motivata dal bene comune del vostro popolo. Una cultura di pace implica uno sviluppo produttivo, sostenibile e inclusivo, in cui ogni mozambicano possa sentire che questo Paese è suo, e in cui possa stabilire rapporti di fraternità ed equità con il proprio vicino e con tutto ciò che lo circonda.

Signor Presidente, distinte Autorità! Voi tutti siete i costruttori dell’opera più bella che si possa compiere: un futuro di pace e riconciliazione quali garanzie del diritto dei vostri figli al futuro. Chiedo a Dio che, nel periodo che trascorrerò in mezzo a voi, possa anch’io – in comunione con i miei fratelli vescovi e la Chiesa cattolica che pellegrina su questa terra – contribuire affinché la pace, la riconciliazione e la speranza regnino definitivamente tra di voi. Grazie.


Incontro interreligioso con i Giovani nel Pavillon Maxaquene

Tante grazie per le vostre parole di benvenuto! E grazie anche per tutte ed ognuna delle rappresentazioni artistiche che avete realizzato. Molte grazie, grazie! Sedetevi, mettetevi comodi.

Mi avete ringraziato perché ho riservato del tempo per stare con voi. Cosa può esserci di più importante per un pastore che stare con la sua gente? Cosa c’è di più importante per un pastore che incontrarsi con i suoi giovani? Voi siete importanti! Avete bisogno di saperlo, avete bisogno di crederci: voi siete importanti! Però con umiltà. Perché non siete solo il futuro del Mozambico, o della Chiesa e dell’umanità; voi siete il presente, siete il presente del Mozambico, con tutto ciò che siete e fate, state già contribuendo al presente con il meglio che oggi potete dare. Senza il vostro entusiasmo, le vostre canzoni, la vostra gioia di vivere, che sarebbe di questa terra? Senza i giovani, cosa sarebbe di questa terra? Vedervi cantare, sorridere, ballare, in mezzo a tutte le difficoltà che attraversate – come giustamente ci raccontavi tu – è il miglior segno del fatto che voi giovani siete la gioia di questa terra, la gioia di oggi, di oggi. La speranza del domani.

La gioia di vivere è una delle vostre principali caratteristiche, la caratteristica dei giovani, la gioia di vivere, come si può sentire qui! Gioia condivisa e celebrata, che riconcilia, e diventa il miglior antidoto per smentire tutti quelli che vi vogliono dividere – attenzione: che vi vogliono dividere! –, che vi vogliono frammentare, che vi vogliono contrapporre. Come si sente, in alcune regioni del mondo, la mancanza della vostra gioia di vivere! Come si sente, in alcune regioni del mondo, la gioia di essere uniti, di vivere insieme, diverse confessioni religiose, ma figli della stessa terra, uniti.

Grazie di essere qui alle diverse confessioni religiose. Grazie perché vi incoraggiate a vivere la sfida della pace e a celebrarla oggi insieme come famiglia, compresi coloro che, pur non appartenendo ad alcuna tradizione religiosa, sono venuti per partecipare... Così sperimentate che tutti siamo necessari: con le nostre differenze, ma necessari. Le nostre differenze sono necessarie. Insieme, come vi trovate adesso, voi siete il palpito di questo popolo, dove ognuno svolge un ruolo fondamentale, in un unico progetto creativo, per scrivere una nuova pagina di storia, una pagina piena di speranza, piena di pace, piena di riconciliazione. Vi chiedo: volete scrivere questa pagina? [rispondono: sì!] Quando sono entrato, avete cantato “riconciliazione”. Volete ripeterlo? [tutti: Riconciliazione! Riconciliazione! Riconciliazione!] Grazie!

Mi avete fatto due domande, ma penso che siano collegate. Una era: come fare perché i sogni dei giovani diventino realtà? E l’altra: come fare perché i giovani si coinvolgano nei problemi che affliggono il Paese? Voi, oggi, ci avete indicato la strada e ci avete insegnato come rispondere a queste domande.

L’avete detto con l’arte, con la musica, con la ricchezza culturale di cui hai parlato con tanto orgoglio…, avete espresso una parte dei vostri sogni e delle vostre realtà; in ognuna di quelle espressioni, si presentano modi diversi di affacciarvi sul mondo e guardare l’orizzonte: sempre con occhi colmi di speranza, pieni di futuro e pieno di desideri. Voi, giovani, camminate con due piedi come gli adulti, nello stesso modo; ma, a differenza degli adulti che li tengono paralleli, ne avete sempre uno davanti all’altro, pronti a partire, a scattare. Avete tanta forza, siete capaci di guardare con tanta speranza! Siete una promessa di vita, che porta in sé una tenacia (cfr Esort. ap. postsin.Christus vivit, 139), che non dovete perdere né lasciarvi rubare.

Come realizzare i sogni, come contribuire a risolvere i problemi del Paese? Mi piacerebbe dirvi: non lasciate che vi rubino la gioia!Non smettete di cantare e di esprimervi secondo tutto il bene che avete imparato dalle vostre tradizioni. Che non vi rubino la gioia! Come vi ho detto, ci sono molti modi di guardare l'orizzonte, il mondo, di guardare il presente e il futuro, ci sono molti modi. Ma bisogna stare attenti a due atteggiamenti che uccidono i sogni e la speranza. Quali sono? La rassegnazione e l’ansia. Due atteggiamenti che uccidono i sogni e la speranza. Sono grandi nemiche della vita, perché di solito ci spingono su un percorso facile ma di sconfitta; e il pedaggio che chiedono per passare è molto caro! E’ molto caro. Si paga con la propria felicità e persino con la propria vita. Rassegnazione e ansia: due atteggiamenti che rubano la speranza. Quante promesse vuote di felicità, che finiscono per mutilare delle vite! Sicuramente sapete di amici, conoscenti – o potrebbe essere capitato a voi – che, in momenti difficili, dolorosi, quando tutto sembra caderti addosso, restano schiacciati dalla rassegnazione. Bisogna stare molto attenti, perché questo atteggiamento «fa prendere la strada sbagliata. Quando tutto sembra fermo e stagnante, quando i problemi personali ci inquietano, i disagi sociali non trovano le dovute risposte, non è buono darsi per vinti” (ibid., 141). Non è buono darsi per vinti! Ripetete: non è bene darsi per vinti. [tutti: non è bene darsi per vinti!]

So che alla maggior parte di voi piace molto il calcio. È vero? Ricordo un grande giocatore di queste terre che ha imparato a non rassegnarsi: Eusebio da Silva, la “pantera nera”. Iniziò la sua vita sportiva nella squadra di questa città. Le gravi difficoltà economiche della sua famiglia e la morte prematura di suo padre non impedirono i suoi sogni; la sua passione per il calcio lo ha fatto perseverare, sognare e andare avanti... arrivando a segnare 77 reti per questo club di Maxaquene! Non mancavano i motivi per rassegnarsi... e lui non si è rassegnato.

Il suo sogno e la sua voglia di giocare lo hanno spinto avanti, ma è stato altrettanto importante trovare con chi giocare. Sapete bene che, in una squadra, non sono tutti uguali, non fanno tutti le stesse cose né pensano tutti allo stesso modo. No. Ogni giocatore ha le sue caratteristiche, come possiamo scoprire e godere in questo incontro: veniamo da tradizioni diverse e possiamo persino parlare lingue diverse, ma questo non ci ha impedito di incontrarci. Già molto si è sofferto e si continua a soffrire, perché alcuni si credono in diritto di decidere chi può “giocare” – no! – e chi invece deve restare “fuori dal campo” - è un diritto ingiusto! -, alcuni che passano la vita a creare divisione e contrapposizione, e a fare la guerra. Oggi voi, cari amici, siete un esempio, siete una testimonianza di come dobbiamo agire. Testimoni di unità, di riconciliazione, di speranza. Come una squadra di calcio. Come impegnarsi per il Paese? Proprio come state facendo ora, restando uniti, aldilà di qualsiasi cosa vi possa differenziare, cercando sempre l’opportunità per realizzare i sogni di un Paese migliore, ma... insieme. Insieme. Com’è importante non dimenticare che l’inimicizia sociale distrugge. Insieme! [tutti: l’inimicizia sociale distrugge!] E una famiglia si distrugge per l’inimicizia. Un Paese si distrugge per l’inimicizia. Insieme! [tutti: l’inimicizia sociale distrugge!] Il mondo si distrugge per l’inimicizia. E l’inimicizia più grande è la guerra. Perché sono incapaci di sedersi e parlare. Siate capaci di creare l’amicizia sociale (cfr. ibid. 169).

Ricordo il proverbio che dice: “Se vuoi arrivare alla svelta, cammina da solo; se vuoi arrivare lontano, vai in compagnia”. Lo ripetiamo. [tutti: se vuoi arrivare alla svelta, cammina da solo; se vuoi arrivare lontano, vai in compagnia. Si tratta sempre di sognare insieme, come state facendo oggi. Sognate con gli altri, mai contro gli altri; sognate come avete sognato e preparato questo incontro: tutti uniti e senza barriere. Questo fa parte della “nuova pagina della storia” del Mozambico.

Calcio, squadre, giocare insieme. Giocare insieme ci insegna che non solo la rassegnazione è nemica dei sogni, ma anche l’ansia. Rassegnazione e ansia. L’ansia: questa «può diventare una grande nemica quando ci porta ad arrenderci perché scopriamo che i risultati non sono immediati. I sogni più belli si conquistano con speranza, pazienza e impegno rinunciando alla fretta. Nello stesso tempo, non bisogna bloccarsi per insicurezza, non bisogna avere paura di rischiare e di commettere errori» (ibid., 142), è normale. Le cose più belle maturano col tempo e, se qualcosa non ti è andato bene la prima volta, non aver paura di riprovare ancora e ancora e ancora. Non aver paura di sbagliare! Possiamo sbagliare mille volte, ma non cadiamo nell’errore di fermarci perché qualcosa non è andato bene la prima volta. L’errore peggiore sarebbe quello di abbandonare, a causa dell’ansia, abbandonare i sogni e la voglia di un Paese migliore.

Ad esempio, avete davanti agli occhi la bella testimonianza offerta da Maria Mutola, che ha imparato a perseverare, a continuare a provare, nonostante restasse incompiuto il suo desiderio di ottenere la medaglia d’oro nei primi tre Giochi Olimpici a cui ha partecipato; successivamente, al quarto tentativo, questa atleta degli 800 metri ha ottenuto la sua medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sydney. Tentare, tentare. L’ansia non l’ha portata a chiudersi in sé stessa; i suoi nove titoli mondiali non le hanno fatto dimenticare il suo popolo, le sue radici, ma ha continuato a prendersi cura dei bambini bisognosi del Mozambico. Come lo sport ci insegna a perseverare nei nostri sogni!

Vorrei aggiungere un altro elemento importante. No all’ansia, no alla rassegnazione, e ora un altro elemento importante: non escludete i vostri anziani.

Anche i vostri anziani possono aiutare affinché i vostri sogni e le vostre aspirazioni non inaridiscano, non siano spazzati via dal primo vento di difficoltà o di impotenza. Gli anziani sono le nostre radici. Lo diciamo? [tutti: Gli anziani sono le nostre radici. Gli anziani sono le nostre radici] Le generazioni precedenti hanno molto da dirvi, da proporvi. È vero che a volte noi, gli anziani, lo facciamo in modo autoritario, come ammonimento, incutendo paura. È vero, a volte mettiamo paura oppure abbiamo la pretesa che voi facciate, parliate e viviate proprio come noi. È sbagliato. Voi invece dovrete fare la vostra sintesi, ma ascoltando, valorizzando quelli che vi hanno preceduto. Non avete fatto così con la vostra musica? Al ritmo tradizionale del Mozambico, la “marrabenta”, ne avete mescolati altri moderni e così è nato il “pandza”. Quello che avete ascoltato, che avete visto cantare e ballare dai vostri genitori e dai vostri nonni, lo avete assunto come proprio. Questa è la strada che vi propongo: una «strada, fatta di libertà, di entusiasmo, di creatività, di orizzonti nuovi, ma coltivando nello stesso tempo le radici che alimentano e sostengono» (ibid., 184). Gli anziani sono le nostre radici. [tutti: gli anziani sono le nostre radici]

Tutti questi sono piccoli elementi che vi possono dare il supporto di cui avete bisogno per non chiudervi nei momenti di difficoltà, ma aprirvi una breccia di speranza; una breccia che vi aiuterà a mettere in campo la vostra creatività e a trovare nuove strade e nuovi spazi per rispondere ai problemi con il gusto della solidarietà.

Molti di voi sono nati sotto il segno della pace, una pace travagliata che ha attraversato momenti diversi: alcuni più sereni e altri di prova. La pace è un processo che anche voi siete chiamati a portare avanti, stendendo sempre le vostre mani soprattutto a coloro che passano momenti difficili. Grande è il potere della mano tesa e dell’amicizia tradotta in gesti concreti! Penso alla sofferenza di quei giovani carichi di sogni che sono venuti a cercare lavoro in città, e oggi si trovano senza casa, senza famiglia e senza una mano amica. Com’è importante imparare ad essere una mano amica e tesa! Questo gesto, il gesto della mano tesa. Tutti insieme! Il gesto della mano tesa. [Tutti: il gesto della mano tesa]. Grazie. Cercate di crescere nell’amicizia anche con coloro che la pensano diversamente, in modo che la solidarietà cresca tra di voi e diventi l’arma migliore per trasformare la storia. La solidarietà è la migliore arma per trasformare la storia.

Una mano tesa, che ci ricorda anche la necessità di impegnarci nella cura della nostra Casa Comune. Indubbiamente siete stati benedetti con stupende bellezze naturali: foreste e fiumi, vallate e montagne e tante belle spiagge.

Purtroppo, qualche mese fa avete subito la furia di due cicloni, avete visto le conseguenze dello sfacelo ecologico in cui viviamo. In molti, compresi tanti giovani, hanno già abbracciato la sfida improrogabile di proteggere la nostra casa. Abbiamo una sfida: proteggere la nostra casa comune.

Consentitemi di lasciarvi un ultimo pensiero: Dio vi ama; e su questa affermazione siamo d’accordo tutte le tradizioni religiose. «Per Lui tu sei realmente prezioso, non sei insignificante, sei importante per Lui, perché sei opera delle sue mani. Perché ti ama. Cerca di rimanere un momento in silenzio lasciandoti amare da Lui. Cerca di mettere a tacere tutte le voci e le grida interiori e rimani un momento nel suo abbraccio d’amore» (Christus vivit, 115). Facciamolo insieme ora [rimangono un momento in silenzio].

È l’amore del Signore, che sa più di risalite che di cadute, di riconciliazione che di proibizione, di dare nuova opportunità che di condannare, di futuro che di passato» (ibid., 116).

So che voi credete in questo amore che rende possibile la riconciliazione.

Grazie! E, per favore, non vi dimenticatevi di pregare per me.

Dio vi benedica.


Incontro con i Vescovi, Sacerdoti, Religiosi/e, Consacrati e Seminaristi, Catechisti e Animatori nella Cattedrale dell’Immacolata Concezione

Ringrazio Mons. Hilario per le parole di benvenuto che mi ha rivolto a nome di tutti voi. Con affetto e viva gratitudine vi saluto tutti. So che avete fatto un grande sforzo per essere qui. Insieme, vogliamo rinnovare la risposta alla chiamata che una volta ha fatto ardere i nostri cuori e che la Santa Madre Chiesa ci ha aiutato a discernere e confermare con la missione. Grazie per le vostre testimonianze, che parlano dei momenti difficili e delle gravi sfide che vivete, riconoscendo limiti e debolezze, ma anche ammirando la misericordia di Dio. Mi ha fatto piacere sentire dalla bocca di una catechista: “Siamo una Chiesa inserita in un popolo eroico”. Grazie! Un popolo che è esperto nel soffrire ma mantiene viva la speranza. Con questo sano orgoglio per il vostro popolo, che invita a rinnovare la fede e la speranza, vogliamo rinnovare il nostro “sì” oggi. Com’è contenta la Santa Madre Chiesa nel sentire dalle vostre labbra l’amore per il Signore e per la missione che vi ha affidato! Com’è contenta nel vedere il vostro desiderio di ritornare sempre al «primo amore» (Ap 2,4)! Chiedo allo Spirito Santo di darvi sempre la lucidità di chiamare la realtà con il suo nome, il coraggio di chiedere perdono e la capacità di imparare ad ascoltare ciò che Lui vuole dirci.

Cari fratelli e sorelle, ci piaccia o no, siamo chiamati ad affrontare la realtà così com’è. I tempi cambiano e dobbiamo riconoscere che spesso non sappiamo come inserirci nei nuovi tempi, nei nuovi scenari; possiamo sognare le “cipolle d’Egitto” (cfr Nm 11,5), dimenticando che la Terra Promessa si trova davanti, non dietro, e in questa nostalgia dei tempi passati ci andiamo pietrificando, ci andiamo “mummificando”. Non è una cosa buona. Un vescovo, un sacerdote, una suora, un catechista mummificato. No, non va bene. Invece di professare una Buona Notizia, quello che annunciamo è qualcosa di grigio che non attira né accende il cuore di nessuno. Questa è la tentazione.

Ci troviamo in questa cattedrale, dedicata all'Immacolata Concezione della Vergine Maria, per condividere come famiglia ciò che ci accade; come famiglia nata da quel “sì” che Maria disse all’angelo. Ella, nemmeno per un momento guardò indietro. Chi racconta questi eventi dell’inizio del mistero dell’Incarnazione è l’evangelista Luca. Nel suo modo di farlo, forse possiamo scoprire le risposte alle domande che avete formulato oggi – vescovi, sacerdoti, suore, catechisti… I seminaristi non le hanno fatte! [ridono] – e trovare anche lo stimolo necessario per rispondere con la stessa generosità e prontezza di Maria.

San Luca presenta in parallelo gli avvenimenti relativi a San Giovanni Battista e quelli concernenti Gesù Cristo; intende così, dal confronto, farci scoprire ciò che si va estinguendo del modo di essere di Dio e del nostro rapportarci con Lui nell’Antico Testamento, e il nuovo modo che ci porta il Figlio di Dio fatto uomo. Un modo, nell’Antico Testamento, che si estingue, e un altro modo nuovo che Gesù porta.

Risalta il fatto che, in entrambe le Annunciazioni - quella di Giovanni Battista e quella di Gesù – c’è un angelo. Tuttavia, in un caso, l’apparizione avviene in Giudea, nella città più importante – Gerusalemme – e non in un luogo qualsiasi, ma nel tempio e, al suo interno, nel Santo dei Santi; l’angelo si rivolge a un uomo, per di più sacerdote. Mentre l’annuncio dell’Incarnazione avviene in Galilea, la più remota e conflittuale delle regioni, in un piccolo villaggio – Nazareth –, in una casa e non nella sinagoga o in un luogo sacro, è rivolto a una persona laica e per di più donna – non a un sacerdote, non a un uomo. Il contrasto è grande. Cosa è cambiato? Tutto. Tutto è cambiato. E, in questo cambiamento, si trova la nostra identità più profonda.

Mi chiedevate che cosa fare riguardo alla crisi dell’identità sacerdotale, come combatterla. A proposito, quello che sto per dire dei sacerdoti è qualcosa che tutti (vescovi, catechisti, consacrati, seminaristi) siamo chiamati a coltivare e promuovere. Parlerò per tutti.

Di fronte alla crisi dell’identità sacerdotale, forse dobbiamo uscire dai luoghi importanti e solenni; dobbiamo tornare ai luoghi in cui siamo stati chiamati, dove era evidente che l’iniziativa e il potere erano di Dio. Nessuno di noi è stato chiamato per un posto importante, nessuno. A volte senza volerlo, senza colpa morale, ci abituiamo a identificare la nostra attività quotidiana di sacerdoti, religiosi, consacrati, laici, catechisti, con determinati riti, con riunioni e colloqui, dove il posto che occupiamo nella riunione, alla mensa o in aula è gerarchico; somigliamo più a Zaccaria che a Maria. «Credo che non esageriamo se diciamo che il sacerdote è una persona molto piccola: l’incommensurabile grandezza del dono che ci è stato dato per il ministero ci relega tra i più piccoli degli uomini. Il sacerdote è il più povero degli uomini – sì, il sacerdote è il più povero degli uomini – se Gesù non lo arricchisce con la sua povertà, è il più inutile servo se Gesù non lo chiama amico, il più stolto degli uomini se Gesù non lo istruisce pazientemente come fece con Pietro, il più indifeso dei cristiani se il Buon Pastore non lo fortifica in mezzo al gregge. – La debolezza del sacerdote, del consacrato, del catechista –. Nessuno è più piccolo di un sacerdote lasciato alle sue sole forze; perciò la nostra preghiera di difesa contro ogni insidia del Male è la preghiera di nostra Madre: sono sacerdote, perché Lui ha guardato con bontà la mia piccolezza (cfr Lc 1,48)» (Omelia nella Messa Crismale, 17 aprile 2014). Fratelli e sorelle, ritornare a Nazareth, ritornare in Galilea può essere la via per affrontare la crisi d’identità. Gesù ci chiama, dopo la sua risurrezione, a ritornare in Galilea, per incontrarlo. Ritornare a Nazareth, alla prima chiamata, ritornare in Galilea, per risolvere la crisi di identità, per rinnovarci come pastori-discepoli-missionari. Voi stessi parlavate di una certa esagerazione nel preoccuparsi di produrre risorse per il benessere personale, attraverso “percorsi tortuosi” che spesso finiscono per privilegiare tempi e compiti pagati dallo Stato e creano resistenze a dedicare la vita alla pastorale quotidiana. L’immagine di questa fanciulla semplice nella sua casa, in contrasto con tutta la struttura del tempio e di Gerusalemme, può essere lo specchio in cui vediamo le nostre complicazioni, le nostre preoccupazioni che oscurano e corrodono la generosità del nostro “sì”.

I dubbi e il bisogno di spiegazioni di Zaccaria stonano con il “sì” di Maria, che chiede solo di sapere come avverrà tutto ciò che sta per accaderle. Zaccaria non può evitare la preoccupazione di controllare tutto, non può rinunciare alla logica di essere e sentirsi responsabile e autore di ciò che accadrà. Maria non dubita, non pensa a sé stessa: si abbandona, si fida. È estenuante vivere il rapporto con Dio come fa Zaccaria, come un dottore della Legge: sempre eseguendo regole, sempre considerando che lo stipendio è proporzionato allo sforzo compiuto, che è merito mio se Dio mi benedice, che la Chiesa ha il dovere di riconoscere le mie virtù e i miei sforzi... È estenuante, è estenuante vivere il rapporto con Dio come fa Zaccaria. Non possiamo correre dietro a ciò che si traduce in benefici personali; le nostre stanchezze devono invece essere piuttosto legate alla nostra capacità di compassione. Ho capacità di compassione? Sono impegni in cui il nostro cuore è “mosso” e commosso. Fratelli e sorelle, la Chiesa chiede capacità di compassione. Capacità di compassione. «Ci rallegriamo con i fidanzati che si sposano – la vita pastorale –, ridiamo con il bimbo che portano a battezzare; accompagniamo i giovani che si preparano al matrimonio e alla famiglia; ci addoloriamo con chi riceve l’unzione nel letto d’ospedale; piangiamo con quelli che seppelliscono una persona cara» (Omelia nella Messa Crismale, 2 aprile 2015). Dedichiamo ore e giorni ad accompagnare quella madre con l’AIDS, quel bambino rimasto orfano, quella nonna che si fa carico di tanti nipotini o quel giovane che è venuto in città ed è disperato perché non riesce a trovare lavoro. «Tante emozioni… Se noi abbiamo il cuore aperto, questa emozione e tanto affetto affaticano il cuore del Pastore. Per noi sacerdoti le storie della nostra gente non sono un notiziario: noi conosciamo la nostra gente, possiamo indovinare ciò che sta passando nel loro cuore; e il nostro, nel patire con loro, ci si va sfilacciando, ci si divide in mille pezzetti, ed è commosso e sembra perfino mangiato dalla gente: prendete, mangiate. Questa è la parola che sussurra costantemente il sacerdote di Gesù quando si sta prendendo cura del suo popolo fedele: prendete e mangiate, prendete e bevete… E così la nostra vita sacerdotale si va donando nel servizio, nella vicinanza al Popolo fedele di Dio… che sempre, sempre stanca» (ibid.). Fratelli e sorelle, la vicinanza stanca, stanca sempre. La vicinanza al santo popolo di Dio. La vicinanza stanca. È bello incontrarsi, un sacerdote, una suora, un catechista…, stanchi di vicinanza. Rinnovare la chiamata spesso richiede di verificare se la nostra stanchezza e le nostre preoccupazioni hanno a che fare con una certa “mondanità spirituale” dettata «dal fascino di mille proposte di consumo che non possiamo scrollarci di dosso per camminare, liberi, sui sentieri che ci conducono all’amore dei nostri fratelli, al gregge del Signore, alle pecorelle che attendono la voce dei loro pastori» (Omelia nella Messa Crismale, 24 marzo 2016). Rinnovare la chiamata, la nostra chiamata, significa scegliere, dire di sì e stancarci con ciò che è fecondo agli occhi di Dio, che rende presente, incarna il suo Figlio Gesù. Voglia Iddio che troviamo, in questa salutare stanchezza, la fonte della nostra identità e felicità. La vicinanza stanca, e questa stanchezza è santità.

Possano i nostri giovani scoprire in noi la volontà di lasciarci “prendere e mangiare”, e sia proprio questo a farli interrogare riguardo alla sequela di Gesù, in modo che, abbagliati dalla gioia di una donazione quotidiana non imposta ma maturata e scelta nel silenzio e nella preghiera, vogliano dire il loro “sì”. Tu che ancora ti stai interrogando, o tu che sei già sulla via di una consacrazione definitiva, ti renderai conto che «l’ansia e la velocità di tanti stimoli che ci bombardano fanno sì che non ci sia spazio per quel silenzio interiore in cui si percepisce lo sguardo di Gesù e si ascolta la sua chiamata. Nel frattempo, riceverai molte proposte ben confezionate, che si presentano belle e intense, ma con il tempo ti lasceranno svuotato, stanco e solo. Non lasciare che questo ti accada, perché il turbine di questo mondo ti trascina in una corsa senza senso, senza orientamento, senza obiettivi chiari, e così molti tuoi sforzi andranno sprecati. Cerca piuttosto quegli spazi di calma e di silenzio che ti permettano di riflettere, di pregare, di guardare meglio il mondo che ti circonda, e a quel punto, insieme a Gesù, potrai riconoscere quale è la tua vocazione in questa terra» (Esort. ap. Christus vivit, 277).

Quel gioco di contrasti, presentato dall’evangelista Luca – l’incarnazione a Nazareth e l’annunciazione a Zaccaria nel Tempio –, culmina nell’incontro delle due donne: Elisabetta e Maria. La Vergine visita la sua cugina anziana e tutto è festa, danza e lode. C’è una parte di Israele che ha capito il profondo e vertiginoso cambiamento del progetto di Dio: perciò accetta di essere visitata, perciò il bambino sussulta nel grembo. Per un momento, in una società patriarcale, il mondo degli uomini si ritrae, resta muto come Zaccaria. Oggi ci ha parlato anche una catechista, una suora, una donna mozambicana che ci ha ricordato che niente vi farà perdere l’entusiasmo di evangelizzare, di adempiere il vostro impegno battesimale. La vostra vocazione è evangelizzare; la vocazione della Chiesa è evangelizzare; l’identità della Chiesa è evangelizzare. Non fare proselitismo! Il proselitismo non è evangelizzazione. Il proselitismo non è cristiano. La nostra vocazione è evangelizzare. L’identità della Chiesa è evangelizzare. E questa nostra sorella rappresenta tutti quelli che vanno incontro ai loro fratelli: sia quelli che visitano come Maria, sia quelli che, lasciandosi visitare, accettano volentieri che l’altro li trasformi condividendo la loro cultura, i loro modi di vivere la fede e di esprimerla.

La preoccupazione che hai manifestato ci mostra che l’inculturazione sarà sempre una sfida, come il “viaggio” tra queste due donne che si troveranno trasformate a vicenda attraverso l’incontro e il servizio. «Le Chiese particolari devono promuovere attivamente forme, almeno iniziali, di inculturazione. Ciò a cui si deve tendere, in definitiva, è che la predicazione del Vangelo, espressa con categorie proprie della cultura in cui è annunciato, provochi una nuova sintesi con tale cultura. Benché questi processi siano sempre lenti, a volte la paura ci paralizza troppo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 129). La paura paralizza.

La “distanza” tra Nazareth e Gerusalemme è accorciata, diventa inesistente per quel “sì” di Maria. Perché le distanze, i regionalismi e i particolarismi, la continua costruzione di muri, minano la dinamica dell’incarnazione, che ha abbattuto il muro che ci separava (cfr Ef 2,14). Voi – almeno i più anziani – che siete stati testimoni di divisioni e rancori finiti in guerre, dovete essere sempre disposti a “visitarvi”, ad accorciare le distanze. La Chiesa del Mozambico è invitata a essere la Chiesa della Visitazione; non può far parte del problema delle competenze, del disprezzo e delle divisioni degli uni contro gli altri, ma porta di soluzione, spazio in cui siano possibili il rispetto, l’interscambio e il dialogo. La domanda posta su come comportarci rispetto a un matrimonio interreligioso ci sfida riguardo a questa persistente tendenza che abbiamo alla frammentazione, a separare piuttosto che unire. E lo stesso succede per il rapporto tra nazionalità, tra etnie, tra quelli del nord e quelli del sud, tra comunità, sacerdoti e vescovi. È una sfida perché, finché non si sviluppa «una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia», si richiede «un costante processo nel quale ogni nuova generazione si vede coinvolta. È un lavoro lento, è un lavoro arduo che esige di volersi integrare e di imparare a farlo». È il requisito necessario per la «costruzione di un popolo in pace, giustizia e fraternità», per «lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune» (ibid., 220-221). Come Maria è andata fino alla casa di Elisabetta, così anche noi nella Chiesa dobbiamo imparare la strada da seguire in mezzo a nuove problematiche, cercando di non restare paralizzati da una logica che contrappone, divide, condanna. Mettetevi in cammino e cercate una risposta a queste sfide chiedendo la sicura assistenza dello Spirito Santo. È Lui il Maestro, in grado di mostrare le nuove strade da percorrere.

Ravviviamo dunque la nostra chiamata vocazionale, facciamolo in questo magnifico tempio dedicato a Maria, e che il nostro “sì” generoso magnifichi il Signore e faccia esultare lo spirito del nostro popolo in Dio nostro Salvatore (cfr Lc 1,46-47). E colmi di speranza, pace e riconciliazione il vostro Paese, il nostro amato Mozambico!

Vi chiedo, per favore, di pregare e far pregare per me.

Il Signore vi benedica e la Vergine Santissima vegli su di voi.

Grazie!


Venerdì 6 settembre

Visita all'ospedale di Maputo

Grazie di cuore per l’accoglienza calorosa e fraterna, e anche per le parole di Cacilda. Grazie per la tua vita e la tua testimonianza, espressione che questo Centro sanitario polivalente “Sant’Egidio” di Zimpeto è manifestazione dell’amore di Dio, sempre pronto a soffiare vita e speranza dove abbondano la morte e la sofferenza.

Saluto cordialmente le autorità, gli operatori sanitari, i malati con le loro famiglie e tutti i presenti. Nel vedere con quanta competenza, professionalità e amore curate e accogliete tanti malati, concretamente persone con AIDS/HIV, soprattutto donne e bambini, mi viene in mente la parabola del Buon Samaritano.

Tutti quelli che sono passati da qui, tutti coloro che arrivano presi dalla disperazione e dall’angoscia somigliano a quell'uomo abbandonato al bordo della strada. E voi, qui, non siete passati a distanza, non avete proseguito per la vostra strada come avevano fatto altri (il levita e il sacerdote). Questo Centro ci mostra che c'è stato chi si è fermato e ha sentito compassione, chi non ha ceduto alla tentazione di dire “non c’è niente da fare”, “è impossibile combattere questa piaga” e si è dato da fare con coraggio per cercare delle soluzioni. Voi, come ha detto Cacilda, avete ascoltato quel grido silenzioso, quasi impercettibile, di tante donne, di tante persone che vivevano nella vergogna, emarginate, giudicate da tutti. Ecco perché avete ampliato questa casa – dove il Signore vive con coloro che si trovano al bordo della strada – ai malati di cancro, di tubercolosi e a centinaia di persone malnutrite, in particolare bambini e giovani.

Così tutte le persone che, a vari livelli, fanno parte di questa comunità sanitaria diventano espressione del Cuore di Gesù, in modo che nessuno pensi «che il loro grido sia caduto nel vuoto. […] [Sono] un segno di condivisione per quanti sono nel bisogno, per sentire la presenza attiva di un fratello e di una sorella. Non è un atto di delega ciò di cui i poveri hanno bisogno, ma il coinvolgimento personale di quanti ascoltano il loro grido. La sollecitudine dei credenti non può limitarsi a una forma di assistenza – pur necessaria e provvidenziale in un primo momento –, ma richiede quella attenzione d’amore che onora l’altro in quanto persona e cerca il suo bene» (Messaggio per la II Giornata mondiale dei poveri, 18 novembre 2018, n. 3). Ascoltare questo grido vi ha portato a capire che il trattamento medico, sebbene necessario, non era sufficiente; perciò avete considerato la problematica in tutta la sua integralità per ridare dignità alle donne e ai bambini, aiutandoli a progettare un futuro migliore.

In questo immenso campo, che si è venuto aprendo davanti a voi grazie al continuo ascoltare, avete anche sperimentato il vostro limite: la mancanza di mezzi di ogni genere. Il programma, che avete sviluppato e vi ha collegato con altri luoghi del mondo, è un esempio di umiltà per aver riconosciuto i vostri limiti, e di creatività per il lavoro in rete. L’impegno gratuito e volontario di tante persone di diverse professioni che hanno fornito la loro preziosa collaborazione per formare operatori locali, contiene in sé stesso un enorme valore umano ed evangelico.

Nello stesso tempo è meraviglioso vedere come questo ascolto dei più deboli dei poveri, i malati, ci mette in contatto con un’altra parte fragile del mondo: penso ai «sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che “geme e soffre le doglie del parto” (Rm 8,22)» (Enc. Laudato si', 2). Come insegnano le sculture di arte makonde – le cosidette ujamaa con varie figure aggrappate l’una all’altra in cui prevalgono l’unità e la solidarietà sull’individuo –, dobbiamo renderci conto che siamo, tutti, parte di uno stesso tronco. Voi siete stati in grado di capirlo e quest’ascolto vi ha portato a cercare i mezzi sostenibili nella ricerca di energia, nonché nella raccolta e riserva di acqua; le vostre opzioni a basso impatto ambientale sono un modello virtuoso, un esempio da seguire vista l’urgenza imposta dal deterioramento del pianeta.

Il testo del Buon Samaritano termina con il ferito accompagnato alla locanda, parte del pagamento consegnato al locandiere e la promessa del rimanente al ritorno. Donne come Cacilda, i circa centomila bambini che possono scrivere una nuova pagina di storia liberi dall’HIV/AIDS e molte altre persone anonime che oggi sorridono perché sono state curate con dignità nella loro dignità, sono parte del pagamento che il Signore vi ha lasciato: presenze-dono, che, uscendo dall’incubo della malattia, senza nascondere la loro condizione, trasmettono speranza a molte persone; con quell’“io sogno” contagiano tanti che hanno bisogno di essere raccolti dal bordo della strada. L’altra parte vi sarà retribuita dal Signore “quando Egli ritornerà”, e questo deve riempirvi di gioia: quando noi ce ne andremo, quando voi ritornerete ai compiti quotidiani, quando nessuno vi applaudirà né loderà, continuate ad accogliere quelli che vengono, andate a cercare i feriti e gli sconfitti nelle periferie... Non dimentichiamo che i loro nomi, scritti nel cielo, hanno accanto un’iscrizione: questi sono i benedetti del Padre mio. Rinnovate gli sforzi, perché qui si possa continuare a “dare alla luce” la speranza. Qui si dà alla luce la speranza.

Dio benedica voi, cari malati e familiari, e coloro che vi assistono con tanto affetto e vi incoraggiano ad andare avanti. Che Dio vi benedica.


Santa Messa nello Stadio di Zimpeto, Maputo

Abbiamo ascoltato nel Vangelo di Luca un brano del cosiddetto “discorso della pianura”. Gesù, dopo aver scelto i suoi discepoli e aver proclamato le Beatitudini, aggiunge: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici» (Lc 6,27). Una parola rivolta oggi anche a noi, che Lo ascoltiamo in questo stadio.

E lo dice con chiarezza, semplicità e fermezza, tracciando un sentiero, una via stretta che richiede alcune virtù. Perché Gesù non è un idealista, che ignora la realtà; sta parlando del nemico concreto, del nemico reale, che aveva appena descritto nella Beatitudine precedente (6,22): colui che ci odia, ci mette al bando, ci insulta e disprezza il nostro nome come infame.

Molti di voi possono ancora raccontare in prima persona storie di violenza, odio e discordie; alcuni, nella loro stessa carne; altri, di qualche conoscente che non c’è più; e altri ancora per paura che le ferite del passato si ripetano e cerchino di cancellare il cammino di pace già percorso, come a Cabo Delgado.

Gesù non ci invita a un amore astratto, etereo o teorico, redatto su scrivanie per dei discorsi. La via che ci propone è quella che Lui stesso ha percorso per primo, la via che gli ha fatto amare quelli che lo tradivano, lo giudicavano ingiustamente, quelli che lo avrebbero ucciso.

È difficile parlare di riconciliazione quando sono ancora aperte le ferite procurate da tanti anni di discordia, oppure invitare a fare un passo di perdono che non significhi ignorare la sofferenza né chiedere che si cancelli la memoria o gli ideali (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 100). Nonostante ciò, Gesù invita ad amare e a fare il bene. E questo è molto di più che ignorare la persona che ci ha danneggiato o fare in modo che le nostre vite non si incrocino: è un mandato che mira a una benevolenza attiva, disinteressata e straordinaria verso coloro che ci hanno ferito. Gesù, però, non si ferma qui; ci chiede anche di benedirli e di pregare per loro, che cioè il nostro parlare di loro sia un dire-bene, generatore di vita e non di morte, che pronunciamo i loro nomi non per insulto o vendetta, ma per inaugurare un nuovo rapporto che conduca alla pace. Alta è la misura che il Maestro ci propone!

Con tale invito Gesù, lungi dall’essere un ostinato masochista, vuole chiudere per sempre la pratica tanto comune – ieri come oggi – di essere cristiani e vivere secondo la legge del taglione. Non si può pensare il futuro, costruire una nazione, una società basata sull’ “equità” della violenza. Non posso seguire Gesù se l’ordine che promuovo e vivo è questo: “occhio per occhio, dente per dente”.

Nessuna famiglia, nessun gruppo di vicini, nessuna etnia e tanto meno un Paese ha futuro, se il motore che li unisce, li raduna e copre le differenze è la vendetta e l’odio. Non possiamo metterci d’accordo e unirci per vendicarci, per fare a chi è stato violento la stessa cosa che lui ha fatto a noi, per pianificare occasioni di ritorsione sotto forme apparentemente legali. «Le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti» (ibid., 60). L’ “equità” della violenza è sempre una spirale senza uscita; e il suo costo, molto elevato. C’è un’altra strada possibile, perché è fondamentale non dimenticare che i nostri popoli hanno diritto alla pace. Voi avete diritto alla pace.

Per rendere il suo invito più concreto e applicabile nel quotidiano, Gesù propone una prima regola d’oro alla portata di tutti – «come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro» (Lc 6,31) – e ci aiuta a scoprire quello che è più importante in questa reciprocità di comportamento: amarci, aiutarci e prestare senza aspettare nulla in cambio.

“Amarci”, ci dice Gesù. E Paolo lo traduce come “rivestirci di sentimenti di misericordia e di bontà” (cfr Col 3,12). Il mondo ignorava – e continua a non conoscere – la virtù della misericordia, della compassione, uccidendo o abbandonando persone disabili e anziane, eliminando feriti e infermi, e divertendosi con le sofferenze inflitte agli animali. Allo stesso modo non praticava la bontà, la gentilezza, che ci spinge ad avere a cuore il bene del prossimo tanto quanto il proprio.

Superare i tempi di divisione e violenza implica non solo un atto di riconciliazione o la pace intesa come assenza di conflitto, implica l’impegno quotidiano di ognuno di noi ad avere uno sguardo attento e attivo che ci porta a trattare gli altri con quella misericordia e bontà con cui vogliamo essere trattati; misericordia e bontà soprattutto verso coloro che, per la loro condizione, vengono facilmente respinti ed esclusi. Si tratta di un atteggiamento non da deboli, ma da forti, un atteggiamento da uomini e donne che scoprono che non è necessario maltrattare, denigrare o schiacciare per sentirsi importanti; anzi, al contrario. E quest’atteggiamento è la forza profetica che lo stesso Gesù Cristo ci ha insegnato volendosi identificare con loro (cfr Mt 25,35-45) e mostrandoci che la via giusta è il servizio.

Il Mozambico possiede un territorio pieno di ricchezze naturali e culturali, ma paradossalmente con un’enorme quantità di popolazione al di sotto del livello di povertà. E a volte sembra che coloro che si avvicinano con il presunto desiderio di aiutare, abbiano altri interessi. Ed è triste quando ciò accade tra fratelli della stessa terra, che si lasciano corrompere; è molto pericoloso accettare che la corruzione sia il prezzo che dobbiamo pagare per gli aiuti esterni.

«Tra voi non sarà così» (Mt 20,26; cfr vv. 26-28). Con le sue parole, Gesù ci spinge ad essere protagonisti di un altro stile di vita, quello del suo Regno: qui e ora, semi di gioia e speranza, pace e riconciliazione. Ciò che lo Spirito viene a infondere non è un attivismo travolgente, ma, innanzitutto, un’attenzione rivolta all’altro, riconoscendolo e apprezzandolo come fratello fino a sentire la sua vita e il suo dolore come la nostra vita e il nostro dolore. Questo è il miglior termometro per scoprire le ideologie di ogni genere che cercano di manipolare i poveri e le situazioni di ingiustizia al servizio di interessi politici o personali (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 199). Solo così potremo essere, dovunque ci troveremo, semi e strumenti di pace e riconciliazione.

Vogliamo che la pace regni nei nostri cuori e nel palpito del nostro popolo. Vogliamo un futuro di pace. Vogliamo che «la pace di Cristo regni nei vostri cuori» (Col 3,15), come appunto diceva la Lettera di San Paolo. Egli usa un verbo che viene dal mondo dello sport e si riferisce all’arbitro che decide sulle cose discutibili: “possa la pace di Cristo essere l’arbitro nei vostri cuori”. Se la pace di Cristo è l’arbitro nei nostri cuori, allora quando i sentimenti sono in conflitto e ci troviamo indecisi tra due sensi opposti, “facciamo il gioco” di Cristo: la decisione di Cristo ci manterrà nella via dell’amore, nel sentiero della misericordia, nella scelta per i più poveri, nella difesa della natura. Nella via della pace. Se Gesù sarà l’arbitro tra le emozioni contrastanti del nostro cuore, tra le complesse decisioni del nostro Paese, allora il Mozambico ha assicurato un futuro di speranza; allora il vostro Paese potrà cantare a Dio, con gratitudine e di tutto cuore, salmi, inni e canti ispirati (cfr Col 3,16).


Ringraziamento del Santo Padre al termine della Messa

Al termine della mia visita, vorrei dire “grazie” a tutte le persone e le realtà che hanno collaborato per la sua realizzazione; a cominciare da questa Arcidiocesi di Maputo e dal suo Pastore, Monsignor Francisco Chimoio, che ringrazio per la fraterna ospitalità e anche per il gioioso saluto che mi ha appena rivolto a nome dei fratelli Vescovi e di tutto il popolo di Dio. Una parola di particolare gratitudine va al Signor Presidente Filipe Nyusi per la sua premurosa attenzione, sia a livello personale, sia attraverso le varie istituzioni governative e le forze di sicurezza della nazione. Ringrazio per il lavoro sacrificato e silenzioso dei membri del comitato organizzatore e di tanti volontari. Sono grato ai giornalisti e a tutta la brava gente che è uscita di casa per salutarmi.

Sorelle e fratelli, so che avete dovuto fare dei sacrifici per partecipare alle celebrazioni e agli incontri... e so che vi siete bagnati tutti, spero con acqua benedetta! Lo apprezzo e vi ringrazio di cuore. E sono grato anche a quanti non hanno potuto farlo per le conseguenze dei recenti cicloni: cari fratelli, ho sentito ugualmente il vostro sostegno! E dico a tutti: avete tanti motivi per sperare! L’ho visto e l’ho toccato con mano in questi giorni. Per favore, conservate la speranza; non lasciatevela rubare! E non c’è modo migliore per conservare la speranza che quello di rimanere uniti, affinché tutti i motivi che la sostengono si rafforzino sempre più in un futuro di riconciliazione e di pace in Mozambico. Dio vi benedica e la Vergine Madre vi protegga! E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

Sabato 7 settembre

Incontro con le Autorità, la Società civile e il Corpo Diplomatico nel Ceremony Building, Antananarivo

Signor Presidente,
Signor Primo Ministro,
Signore e Signori Membri del Governo e del Corpo Diplomatico,
Distinte Autorità,
Rappresentanti delle diverse confessioni religiose e della società civile,
Signore e Signori!

Saluto cordialmente il Presidente della Repubblica del Madagascar e lo ringrazio per il suo gentile invito a visitare questo Paese, come pure per le parole di benvenuto che mi ha rivolto. Lei, Signor Presidente, ha parlato con passione, ha parlato con amore per il Suo popolo. La ringrazio per la Sua testimonianza di patriota. Saluto anche il Primo Ministro, i Membri del Governo, del Corpo Diplomatico e i rappresentanti della società civile. E rivolgo un saluto fraterno ai Vescovi, ai membri della Chiesa Cattolica, ai rappresentanti di altre confessioni cristiane e di diverse religioni. Grazie a tutte le persone e le istituzioni che hanno reso possibile questo viaggio, in particolare al popolo malgascio che ci accoglie con grande ospitalità.

Nel preambolo della Costituzione della vostra Repubblica, avete voluto sigillare uno dei valori fondamentali della cultura malgascia: il fihavanana, che evoca lo spirito di condivisione, aiuto reciproco e solidarietà. Include anche l’importanza dei legami familiari, dell’amicizia e della benevolenza tra gli uomini e verso la natura. Così si rivelano “l’anima” del vostro popolo e quei tratti peculiari che lo contraddistinguono, lo costituiscono e gli permettono di resistere con coraggio e abnegazione alle molteplici avversità e difficoltà che deve affrontare quotidianamente. Se dobbiamo riconoscere, valorizzare e apprezzare questa terra benedetta per la sua bellezza e la sua inestimabile ricchezza naturale, non è meno importante farlo anche per quest’“anima” che vi dà la forza di rimanere impegnati con l’aina (vale a dire con la vita), come ha ben ricordato padre Antonio di Padova Rahajarizafy, S.J.

Dopo che la vostra Nazione ha riguadagnato la sua indipendenza, essa aspira alla stabilità e alla pace, attuando un’alternanza democratica positiva che attesta il rispetto della complementarità degli stili e dei progetti. E questo dimostra che «la politica è un veicolo fondamentale per costruire la cittadinanza e le opere dell’uomo» (Messaggio per la 52ª Giornata Mondiale della Pace, 1 gennaio 2019) quando è vissuta come servizio alla collettività umana. È chiaro, quindi, che la funzione e la responsabilità politica costituiscono una sfida continua per coloro che hanno la missione di servire e proteggere i propri concittadini, in particolare i più vulnerabili, e di favorire le condizioni per uno sviluppo dignitoso e giusto, coinvolgendo tutti gli attori della società civile. Perché, come ricordava San Paolo VI, lo sviluppo di una nazione «non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Enc. Populorum progressio, 14).

In questa prospettiva, vi incoraggio a lottare con forza e determinazione contro tutte le forme endemiche di corruzione e di speculazione che accrescono la disparità sociale e ad affrontare le situazioni di grande precarietà e di esclusione che generano sempre condizioni di povertà disumana. Da qui la necessità di introdurre tutte le mediazioni strutturali che possano assicurare una migliore distribuzione del reddito e una promozione integrale di tutti gli abitanti, in particolare dei più poveri. Tale promozione non può limitarsi alla sola assistenza, ma chiede il riconoscimento di soggetti giuridici chiamati a partecipare pienamente alla costruzione del loro futuro (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 204-205).

Inoltre, abbiamo imparato che non possiamo parlare di sviluppo integrale senza prestare attenzione alla nostra casa comune e prendercene cura. Non si tratta solo di trovare gli strumenti per preservare le risorse naturali, ma di cercare «soluzioni integrali, che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale» (Enc. Laudato si’, 139).

La vostra bella isola del Madagascar è ricca di biodiversità vegetale e animale, e questa ricchezza è particolarmente minacciata dalla deforestazione eccessiva a vantaggio di pochi; il suo degrado compromette il futuro del Paese e della nostra casa comune. Come sapete, le foreste rimaste sono minacciate dagli incendi, dal bracconaggio, dal taglio incontrollato di legname prezioso. La biodiversità vegetale e animale è a rischio a causa del contrabbando e delle esportazioni illegali. È vero che, per le popolazioni interessate, molte di queste attività che danneggiano l’ambiente sono quelle che assicurano per il momento la loro sopravvivenza. È dunque importante creare occupazioni e attività generatrici di reddito che siano rispettose dell’ambiente e aiutino le persone ad uscire dalla povertà. In altri termini, non può esserci un vero approccio ecologico né una concreta azione di tutela dell’ambiente senza una giustizia sociale che garantisca il diritto alla destinazione comune dei beni della terra alle generazioni attuali, ma anche a quelle future.

Su questa strada, dobbiamo impegnarci tutti, compresa la comunità internazionale. Molti suoi rappresentanti sono presenti oggi. Bisogna riconoscere che l’aiuto fornito da queste organizzazioni internazionali allo sviluppo del Paese è grande e che rende visibile l’apertura del Madagascar al mondo. Il rischio è che questa apertura diventi una presunta “cultura universale” che disprezza, seppellisce e sopprime il patrimonio culturale di ogni popolo. La globalizzazione economica, i cui limiti sono sempre più evidenti, non dovrebbe portare ad una omogeneizzazione culturale. Se prendiamo parte a un processo in cui rispettiamo le priorità e gli stili di vita originari e in cui le aspettative dei cittadini sono onorate, faremo in modo che l’aiuto fornito dalla comunità internazionale non sia l’unica garanzia dello sviluppo del Paese; sarà il popolo stesso che progressivamente si farà carico di sé, diventando l’artefice del proprio destino.

Ecco perché dobbiamo prestare un’attenzione e un rispetto particolari alla società civile locale, al popolo locale. Sostenendo le sue iniziative e le sue azioni, la voce di coloro che non hanno voce sarà resa più udibile, così come le varie armonie, anche contrastanti, di una comunità nazionale che cerca la propria unità. Vi invito a immaginare questo percorso nel quale nessuno è messo da parte, o va da solo o si perde.

Come Chiesa, vogliamo imitare l’atteggiamento di dialogo della vostra connazionale, la Beata Victoire Rasoamanarivo, che san Giovanni Paolo II beatificò nella sua visita di trent’anni fa. La sua testimonianza d’amore per la sua terra e le sue tradizioni, il servizio ai più poveri come segno della sua fede in Gesù Cristo ci mostrano la via che anche noi siamo chiamati a percorrere.

Signor Presidente, Signore e Signori, desidero riaffermare la volontà e la disponibilità della Chiesa Cattolica in Madagascar di contribuire, in un dialogo permanente con i cristiani delle altre confessioni, con i membri delle altre religioni e con tutti gli attori della società civile, all’avvento di una vera fraternità che valorizzi sempre il fihavanana, promuovendo lo sviluppo umano integrale, affinché nessuno sia escluso.

Con questa speranza, chiedo a Dio di benedire il Madagascar e coloro che vi abitano, di conservare la vostra bella isola pacifica e accogliente, e di renderla prospera e felice! Grazie.


Ora Media nel Monastero delle Carmelitane Scalze

Cara Madre Maddalena dell’Annunciazione,
Care sorelle!

La ringrazio per la calorosa accoglienza e per le Sue parole, cara Madre, che sono l’eco di tutte le monache contemplative dei vari monasteri di questo Paese. Grazie ad ognuna di voi, care sorelle, che avete lasciato per un momento la clausura, per manifestare la vostra comunione con me e con la vita e la missione di tutta la Chiesa, specialmente quella del Madagascar.

Ringrazio per la vostra presenza, per la vostra fedeltà, per la testimonianza luminosa di Gesù Cristo che offrite alla comunità. In questo Paese c’è povertà, è vero, ma c’è anche tanta ricchezza! Ricco di bellezze naturali, umane e spirituali. Anche voi, sorelle, partecipate a questa bellezza del Madagascar, della sua gente e della Chiesa, perché è la bellezza di Cristo che risplende sui vostri volti e nelle vostre vite. Sì, grazie a voi, la Chiesa in Madagascar è ancora più bella agli occhi del Signore e anche agli occhi di tutto il mondo.

I tre salmi della liturgia odierna esprimono l’angoscia del salmista in un momento di prova e di pericolo. Permettetemi di soffermarmi sul primo, cioè sulla sezione del Salmo 119, il più lungo del Salterio, composto da otto versetti per ciascuna lettera dell’alfabeto ebraico. Senza dubbio il suo autore è un uomo di contemplazione, uno che sa dedicare dei lunghi e bei momenti alla preghiera. Nel brano di oggi, la parola che appare più volte e che dà il tono all’insieme è “consumare”, usata principalmente in due sensi.

L’orante si consuma nel desiderio dell’incontro con Dio. Voi siete la testimonianza vivente di questo desiderio inesauribile che alberga nel cuore di tutti gli uomini. Tra le molteplici offerte che pretendono – senza riuscirvi – di soddisfare il cuore, la vita contemplativa è la fiaccola che porta all’unico fuoco eterno, «la fiamma viva d’amore che ferisce teneramente» (San Giovanni della Croce). Voi rappresentate «visibilmente la meta verso cui cammina l’intera comunità ecclesiale che “avanza sulle strade del tempo con lo sguardo fisso alla futura ricapitola­zione di tutto in Cristo”, preannunciando in questo modo la gloria celeste» (Cost. ap. Vultum Dei quaerere, 2).

Siamo sempre tentati di soddisfare il desiderio di eternità con cose effimere. Siamo esposti ai mari in tempesta che finiscono solo per annegare la vita e lo spirito: «Come il marinaio in alto mare ha bisogno del faro che indichi la rotta per giungere al porto, così il mondo ha bisogno di voi. Siate fari, per i vicini e soprattutto per i lontani. Siate fiaccole che accompagnano il cammino degli uomini e delle donne nella notte oscura del tempo. Siate sentinelle del mattino (cfr Is 21,11-12) che annunciano il sorgere del sole (cfr Lc1,78). Con la vostra vita trasfigurata e con parole semplici ruminate nel silenzio, indicateci Colui che è via, verità e vita (cfr Gv 14,6), l’unico Signore che offre pienezza alla nostra esistenza e dona vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Gridateci come Andrea a Simone: “Abbiamo trovato il Signore” (cfr Gv 1,40); annunciate, come Maria di Magdala il mattino della risurrezione: “Ho visto il Signore!” (Gv 20,18)» (ibid., 6).

Ma il salmo parla anche di un altro consumare: quello che si riferisce all’intenzione dei malvagi, di coloro che vogliono distruggere il giusto; lo perseguitano, gli tendono trappole e vogliono farlo cadere. Un monastero è sempre un luogo in cui arrivano i dolori del mondo, quelli della vostra gente. Possano i vostri monasteri, nel rispetto del vostro carisma contemplativo e delle vostre costituzioni, essere luoghi di accoglienza e di ascolto, specialmente per persone molto infelici. Oggi sono con noi due mamme che hanno perso i loro figli e riassumono tutti i dolori dei vostri fratelli isolani. Siate attente al grido e alle miserie degli uomini e delle donne intorno a voi, che vengono a voi consumati dalla sofferenza, dallo sfruttamento e dallo scoraggiamento. Non siate di quelli che ascoltano solo per vincere la noia, soddisfare la curiosità o raccogliere argomenti di conversazione.

A questo proposito, avete una missione fondamentale da svolgere. La clausura vi colloca nel cuore di Dio e, di conseguenza, là dove Lui ha posto il suo cuore. Ascoltate il cuore del Signore per ascoltarlo anche nei vostri fratelli e sorelle. Le persone intorno a voi sono spesso molto povere, deboli, aggredite e ferite in mille modi; ma sono piene di fede e riconoscono istintivamente in voi delle testimoni della presenza di Dio, dei preziosi riferimenti per incontrarlo e ottenere il suo aiuto. Per tanto dolore che le consuma interiormente, che ruba loro la gioia e la speranza, che le fa sentire estranee, voi potete essere una via verso quella roccia che evochiamo in un altro salmo: «Ascolta, o Dio, il mio grido, sii attento alla mia preghiera. Dai confini della terra io t’invoco; mentre il mio cuore viene meno, guidami su rupe inaccessibile» (Sal 60,2-3).

La fede è il bene più grande dei poveri! È molto importante che questa fede sia annunciata, rafforzata in loro, che li aiuti davvero a vivere e a sperare. E che la contemplazione dei misteri di Dio, espressa nella vostra liturgia e nei vostri tempi di preghiera, vi permetta di scoprire meglio la sua presenza attiva in ogni realtà umana, compresa la più dolorosa, e di rendere grazie perché, nella contemplazione, Dio vi offre il dono dell’intercessione. Con la vostra preghiera, voi, come delle madri, prendete i figli sulle spalle e li portate verso la terra promessa. «La preghiera sarà più gradita a Dio e più santificatrice se in essa, con l’intercessione, cerchiamo di vivere il duplice comandamento che ci ha lasciato Gesù. L’intercessione esprime l’impegno fraterno con gli altri quando in essa siamo capaci di includere la vita degli altri, le loro angosce più sconvolgenti e i loro sogni più belli. Di chi si dedica generosamente a intercedere si può dire con le parole bibliche: “Questi è l’amico dei suoi fratelli, che prega molto per il popolo” (2 Mac 15,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 154).

Care sorelle contemplative, senza di voi, che ne sarebbe della Chiesa e di quanti vivono nelle periferie umane del Madagascar? Cosa accadrebbe a tutti coloro che lavorano in prima linea nell’evangelizzazione, e qui in particolare in condizioni molto precarie, difficili e talvolta pericolose? Tutti si appoggiano alla vostra preghiera e al dono sempre rinnovato della vostra vita, un dono molto prezioso agli occhi di Dio che vi fa partecipare al mistero della redenzione di questa terra e delle amate persone che vi abitano.

«Io sono come un otre esposto al fumo», dice il salmo (119,83), alludendo al tempo trascorso vivendo questo duplice modo di essere consumati: da Dio e dalle difficoltà del mondo. A volte, quasi senza volerlo, ce ne allontaniamo e cadiamo «nell’apatia, nella routine, nella demotivazione, nell’accidia paralizzante» (Cost. ap. Vultum Dei quaerere, 11). Non importa... non importano gli anni che avete o la difficoltà di camminare o di arrivare in tempo per gli uffici... Non siamo degli otri esposti al fumo ma tronchi che bruciano fino a consumarsi nel fuoco che è Gesù, Colui che non ci delude mai... e che copre ogni debito.

Grazie per questo momento condiviso. Mi affido alle vostre preghiere. E vi affido tutte le intenzioni che porto durante questo viaggio in Madagascar; preghiamo insieme affinché lo Spirito del Vangelo possa germogliare nei cuori di tutto il vostro popolo.


Incontro con i Vescovi del Madagascar nella Cattedrale di Andohalo

Grazie, Signor Cardinale, per le Sue parole di benvenuto a nome di tutti i fratelli. Sono anche grato perché con le stesse parole Lei ha voluto mostrare come la missione che ci proponiamo di vivere si svolga in mezzo a contraddizioni: una terra ricca con molta povertà; una cultura e una saggezza ereditate dagli antenati che ci fanno apprezzare la vita e la dignità della persona umana, ma anche la constatazione della disuguaglianza e della corruzione. Il compito del pastore è difficile in queste circostanze. Anche con le disuguaglianze: il pastore rischia di andare da una parte e lasciare gli altri. E anche con la corruzione: non dico che il pastore diventi un corrotto, ma c’è il pericolo…: “Farò quest’opera, e quell’altra…”, e diventare affarista; o fare quello scambio, quell’altro, quell’altro… e alla fine, quel buon pastore è finito sporco di corruzione. Succede, succede. Nel mondo, succede. Tenete gli occhi aperti!

“Seminatore di pace e di speranza” è il tema che è stato scelto per questa visita e che può ben essere un’eco della missione che ci è stata affidata. Infatti, noi siamo dei seminatori, e chi semina lo fa nella speranza; lo fa contando sui propri sforzi e sul proprio impegno personale, ma sapendo che ci sono molti fattori che devono concorrere perché il seme germogli, cresca, diventi spiga e infine grano abbondante. Il seminatore stanco e preoccupato non si scoraggia. Questa parola ci deve accompagnare sempre, sia nella vita attiva sia in quella contemplativa, come abbiamo visto oggi [nell’incontro con le suore di clausura]: siate coraggiosi, sii un uomo coraggioso. Il coraggio. Il seminatore stanco e preoccupato non si scoraggia, non si arrende, e tanto meno brucia il suo campo quando qualcosa va storto... Sa aspettare, è fiducioso; si fa carico delle delusioni del suo seme, ma non smette mai di amare il campo affidato alle sue cure. Anche se ne ha la , non fugge via per affidarlo a un altro.

Il seminatore conosce la sua terra, la “tocca”, la “sente” e la prepara perché possa dare il meglio di sé. Noi vescovi, ad immagine del Seminatore, siamo chiamati a spargere i semi della fede e della speranza su questa terra. A tale scopo, dobbiamo sviluppare quel “fiuto” che ci consente di conoscerla meglio e anche di scoprire ciò che compromette, ostacola o danneggia la semente. Il fiuto del pastore. Il pastore può essere molto intelligente, può avere titoli accademici, può avere partecipato a tanti congressi internazionali, sapere tutto, studiare tutto, anche essere uno buono, una persona buona, ma se gli manca il fiuto, mai potrà essere un buon pastore. Il fiuto. Pertanto, «i Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Questa è la verità che ci ha lasciato l’illuminismo neo-liberale: lavoravano anche per il popolo, sì, tutto per il popolo, ma niente con il popolo! Senza il rapporto con il popolo, senza il fiuto… Il vero pastore invece è in mezzo al popolo, immerso tra la gente, nell’amore della sua gente, perché la capisce. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose “perché possiamo goderne” (1 Tm 6,17), perché tutti possano goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare “specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune”. Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimerci sugli avvenimenti che interessano i cittadini» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 182-183). Il pastore in mezzo al popolo. Il pastore che sa ascoltare il linguaggio del popolo. Il pastore unto dal popolo, a cui serve, di cui è servitore.

So che ci sono molte ragioni per preoccuparsi e che, tra le altre cose, voi portate nel cuore la responsabilità di vigilare sulla dignità dei vostri fratelli che chiedono di costruire una nazione sempre più solidale e prospera, dotata di istituzioni solide e stabili. Può un pastore degno di questo nome restare indifferente alle sfide che affrontano i suoi connazionali di tutte le categorie sociali, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa? Un pastore alla maniera di Gesù, può essere indifferente alla vita di quanti gli sono stati affidati?

La dimensione profetica legata alla missione della Chiesa richiede, dovunque e sempre, un discernimento che in genere non è facile. In questo senso, la collaborazione matura e indipendente tra la Chiesa e lo Stato è una sfida continua, perché il pericolo di collusione non è mai remoto, specialmente se noi arriviamo a perdere il “mordente evangelico”. Ascoltando sempre quello che lo Spirito dice senza sosta alle Chiese (cfr Ap 2,7), saremo in grado di sfuggire alle insidie e liberare il fermento del Vangelo in vista di una proficua collaborazione con la società civile nella ricerca del bene comune. Il segno distintivo di questo discernimento sarà che l’annuncio del Vangelo include la vostra preoccupazione per tutte le forme di povertà: non solo «assicurare a tutti il cibo, o un decoroso sostentamento, ma che possano avere prosperità nei suoi molteplici aspetti. Questo implica educazione, accesso all’assistenza sanitaria, e specialmente lavoro, perché nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita. Il giusto salario permette l’accesso adeguato agli altri beni che sono destinati all’uso comune» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 192).

La difesa della persona umana costituisce un’altra dimensione del nostro impegno pastorale. Per essere pastori secondo il cuore di Dio, dobbiamo essere i primi nella scelta di proclamare il Vangelo ai poveri. «Non devono restare dubbi né sussistono spiegazioni che indeboliscano questo messaggio tanto chiaro. Oggi e sempre, i poveri sono i destinatari privilegiati del Vangelo, e l’evangelizzazione rivolta gratuitamente ad essi è segno del Regno che Gesù è venuto a portare. Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri. Non lasciamoli mai soli» (ibid., 48). In altre parole, abbiamo un dovere particolare di vicinanza e di protezione verso i poveri, gli emarginati e i piccoli, verso i bambini e le persone più vulnerabili, vittime di sfruttamento e di abusi, vittime, oggi, di questa cultura dello scarto. Oggi la mondanità ci ha portato a inserire nei programmi sociali, nei programmi di sviluppo, lo scarto come possibilità: lo scarto di chi sta per nascere e lo scarto di chi sta per morire, per affrettare la partenza.

Questo immenso campo non è solo sgomberato e dissodato dallo spirito profetico, ma attende anche la semente gettata nel terreno con pazienza cristiana, consapevole inoltre che non abbiamo né il controllo né la responsabilità dell’intero processo. Un pastore che semina evita di controllare tutto. Non si può. Il seminatore non va ogni giorno a scavare la terra per vedere come cresce il seme. Un pastore evita di controllare tutto – i pastori controllori non lasciano crescere! –, dà spazio alle iniziative, lascia crescere in tempi diversi – non tutti hanno lo stesso tempo di crescita – e non cerca l’uniformità: l’uniformità non è vita; la vita è variegata, ognuno ha il proprio modo di essere, il proprio modo di crescere, il proprio modo di essere persona. L’uniformità non è una strada cristiana. Il vero pastore non ha pretese che non siano ragionevoli, non disprezza i risultati apparentemente più magri: “Questa volta è andata così… avanti, tranquillo! Un’altra volta sarà meglio”. Sa sempre prendere i risultati come vengono. Permettetemi che vi dica qual è l’immagine che a volte mi viene in mente quando penso alla vita del pastore. Il pastore deve prendere la vita da dove viene, con i risultati che vengono. Il pastore è come il portiere della squadra di calcio: prende il pallone da dove lo tirano. Sa muoversi, sa prendere la realtà come viene. E correggere le cose, dopo, ma sul momento prende la vita come viene. Questo è amore di pastore. Questo dice di una fedeltà al Vangelo che ci rende anche pastori vicini al popolo di Dio, a cominciare dai nostri fratelli sacerdoti, che sono i nostri fratelli più vicini e che devono ricevere da noi una cura speciale.

Il pastore dev’essere vicino a Dio, ai suoi sacerdoti, vicino al popolo. Le tre vicinanze del pastore. Vicino a Dio nella preghiera. Non dimentichiamo che quando gli Apostoli “inventano” i diaconi – questo l’ho detto tante volte –, Pietro, per spiegare questa nuova invenzione dei diaconi, dice: “E a noi [Apostoli], la preghiera e l’annuncio della Parola”. Il primo compito del pastore è pregare. Ognuno di voi si chieda: prego? quanto? come? Vicinanza a Dio. Vicinanza ai sacerdoti: i sacerdoti sono i prossimi più prossimi del vescovo. “Ho chiamato il vescovo, ha preso la chiamata la segretaria e mi dice che per tre mesi non c’è posto per darmi un appuntamento”. Un consiglio da fratello: se tu trovi che la tua segretaria ti lascia nella lista la chiamata di un prete, quello stesso giorno, o al massimo il giorno dopo, richiamalo. Forse non avrai tempo per riceverlo, ma richiamalo. Quel prete saprà che ha un padre! E la terza vicinanza: vicinanza al popolo. Il pastore che si allontana dal popolo, che perde il fiuto del popolo, finisce come un “Monsieur l’Abbé”, un funzionario di corte... corte pontificia, importante, ma sempre di corte alla fine, e questo non serve.

Qualche tempo fa esponevo ai vescovi italiani la premura che i nostri sacerdoti possano trovare nel loro vescovo la figura del fratello maggiore e del padre che li incoraggia e li sostiene lungo il cammino (cfr Discorso alla Conferenza Episcopale Italiana, 20 maggio 2019). È questa la paternità spirituale, che spinge il vescovo a non lasciare orfani i suoi sacerdoti e che si può “toccare con mano” non solo nella capacità di aprire le porte a tutti i sacerdoti, ma anche in quella di andare a cercarli per accompagnarli quando attraversano un momento di difficoltà.

Nelle gioie e nelle difficoltà inerenti al ministero, i sacerdoti devono trovare in voi, cari vescovi, dei padri sempre disponibili che sappiano come incoraggiare e sostenere, capaci di apprezzare gli sforzi e di accompagnare i progressi possibili. Il Concilio Vaticano II ha formulato un’osservazione speciale su questo punto: «[I vescovi] Trattino sempre con particolare carità i sacerdoti, perché essi si assumono una parte dei loro ministeri e delle loro preoccupazioni, e vi si consacrano nella vita quotidiana con tanto zelo. Li considerino come figli ed amici e perciò siano disposti ad ascoltarli e a trattarli con fiducia e benevolenza, allo scopo di incrementare l’attività pastorale in tutta la diocesi» (Decr. Christus Dominus, 16).

Prendersi cura della terra implica anche l’attesa paziente dei processi. Il pastore sa attendere i processi. E, al momento del raccolto, l’agricoltore valuta anche la qualità dei lavoratori. Questo vi impone, in quanto pastori, un dovere urgente – sto parlando della qualità dei lavoratori – un dovere urgente di accompagnamento e discernimento, soprattutto per quanto riguarda le vocazioni alla vita consacrata e al sacerdozio, ciò che è fondamentale per garantire l’autenticità di tali vocazioni. E in questo, mi raccomando, state attenti. Non lasciatevi ingannare dalla necessità e dal numero: “Abbiamo bisogno di sacerdoti e perché ho bisogno prendo senza discernimento le vocazioni”. Non so, credo che da voi non sia tanto comune perché avete vocazioni e dunque avete una certa libertà di andare adagio con discernimento. Ma in alcuni Paesi d’Europa è lamentevole: la mancanza di vocazioni spinge il vescovo a prendere di qua, di là, di là senza vedere la vita com’era prendono persone “cacciate” da altri seminari, “cacciate” dalla vita religiosa, che sono state cacciate perché immorali o per altre deficienze. Per favore, state attenti. Non fate entrare il lupo nel gregge. La messe è molta e il Signore – non potendo desiderare che autentici operai – non si lascia limitare nei modi di chiamare e di incitare al dono generoso della propria vita. Dopo la scelta, la formazione dei candidati al sacerdozio e alla vita consacrata è proprio destinata ad assicurare una maturazione e una purificazione delle intenzioni. A questo proposito, nello spirito dell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, vorrei sottolineare che la chiamata fondamentale, senza la quale le altre non hanno ragion d’essere, è la chiamata alla santità, e che questa «santità è il volto più bello della Chiesa» (n. 9). Apprezzo i vostri sforzi per assicurare la formazione di autentici e santi operai per l’abbondante messe nel campo del Signore.

Inoltre, vorrei sottolineare un atteggiamento che a me non piace, perché non viene da Dio: la rigidità. Oggi è alla moda, non so qui, ma in altre parti è alla moda, trovare persone rigide. Sacerdoti giovani, rigidi, che vogliono salvare con la rigidità, forse, non so, ma prendono un atteggiamento di rigidità e alle volte – scusatemi – da museo. Hanno paura di tutto, sono rigidi. State attenti, e sappiate che sotto ogni rigidità ci sono dei gravi problemi.

Tale sforzo deve estendersi anche al vasto mondo del laicato; anche i laici sono inviati per il raccolto, sono chiamati a prendere parte alla pesca, a rischiare le loro reti e il loro tempo con «il loro multiforme apostolato tanto nella Chiesa che nel mondo» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Apostolicam actuositatem, 9). Con tutta la sua estensione, le sue problematiche e i suoi cambiamenti, il mondo costituisce il campo specifico di apostolato dove essi sono chiamati a lavorare con generosità e responsabilità, portandovi il fermento del Vangelo. Ecco perché vorrei congratularmi per tutte le iniziative che prendete come pastori per la formazione dei laici – grazie di questo! – e per non lasciarli soli nella missione di essere sale della terra e luce del mondo, al fine di contribuire alla trasformazione della società e della Chiesa in Madagascar. E mi raccomando, per favore: non clericalizzate i laici. I laici sono laici. Io ho sentito, nella mia precedente diocesi, proposte come questa: “Signor vescovo, io nella parrocchia ho un laico meraviglioso: lavora, organizza tutto… lo facciamo diacono?”. Lascialo lì, non rovinargli la vita, lascialo laico. E, a proposito dei diaconi: i diaconi tante volte soffrono la di clericalismo, si sentono presbiteri o vescovi mancati… No! Il diacono è il custode del servizio nella Chiesa. Per favore, non tenete i diaconi sull’altare: che facciano i lavori fuori, nel servizio. Se devono andare in missione a battezzare, che battezzino: va bene. Ma nel servizio, non fare i sacerdoti mancati.

Cari fratelli, tutta questa responsabilità nel campo di Dio deve provocarci ad avere il cuore e la mente aperti, a scacciare la paura che rinchiude e a vincere la di isolarci: il dialogo fraterno tra di voi – è importante! – come pure la condivisione dei doni e la collaborazione tra le Chiese particolari dell’Oceano Indiano, siano una via di speranza. Dialogo e collaborazione. La somiglianza tra le sfide pastorali quali la protezione dell’ambiente in uno spirito cristiano o il problema dell’immigrazione richiede riflessioni comuni e una sinergia di azioni su larga scala per un approccio efficace.

Infine, attraverso di voi, vorrei salutare in modo speciale i sacerdoti, i religiosi e le religiose che sono malati o sofferenti per l’anzianità. Lascio una domanda a ognuno di voi: vado a visitarli? Vi chiedo di esprimere loro il mio affetto e la mia vicinanza nella preghiera, e di prendervene cura con tenerezza sostenendoli nella bella missione di intercessione.

Due donne proteggono questa Cattedrale: nella cappella qui accanto riposano i resti della Beata Victoire Rasoamanarivo, che ha saputo fare del bene, difendere e diffondere la fede in tempi difficili; e soprattutto vi è l’immagine della Vergine Maria che, con le sue braccia aperte verso la valle e le colline, sembra abbracciare ogni cosa. Chiediamo a loro di allargare sempre il nostro cuore, di insegnarci la compassione proveniente dal grembo materno che la donna e Dio sentono di fronte ai dimenticati della terra, e di aiutarci a seminare la pace e la speranza.

E a voi, come segno del mio cordiale e fedele sostegno, do la mia benedizione, come fratello vi benedico e questa benedizione estendo alle vostre diocesi.

Per favore, non dimenticatevi di pregare per me e far pregare per me!


Veglia con i Giovani nel Campo Diocesano di Soamandrakizay

La ringrazio, Monsignore, per le Sue parole di benvenuto. Grazie a voi, cari giovani che siete venuti da ogni parte di questa bellissima isola, nonostante gli sforzi e le difficoltà che ciò comporta per molti di voi. Tuttavia, siete qui! Mi dà tanta gioia poter vivere con voi questa veglia alla quale il Signore Gesù ci invita. Grazie per i canti e per le danze tradizionali che avete eseguito con grande entusiasmo – non si sbagliavano quelli che mi hanno detto che avete una gioia e un entusiasmo straordinari!

Grazie, Rova Sitraka e Vavy Elyssa, per aver condiviso con tutti noi il vostro cammino di ricerca tra aspirazioni e sfide. Com’è bello incontrare due giovani con una fede viva, in movimento! Gesù ci lascia il cuore sempre in ricerca, ci mette in cammino e in movimento. Il discepolo di Gesù, se vuole crescere nella sua amicizia, non deve rimanere immobile, a lamentarsi e guardare a sé stesso. Deve muoversi, agire, impegnarsi, sicuro che il Signore lo sostiene e lo accompagna.

Per questo mi piace vedere ogni giovane come uno che cerca. Vi ricordate la prima domanda che Gesù rivolge ai discepoli sulla riva del Giordano? La prima domanda era: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38). Il Signore sa che stiamo cercando quella «felicità per la quale siamo stati creati» e «che il mondo non ci potrà togliere» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 1; 177). Ognuno lo esprime in modi diversi, ma in fondo siete sempre alla ricerca di quella felicità che nessuno potrà toglierci.

Come ci hai detto tu, Rova. Nel tuo cuore, avevi da tanto tempo il desiderio di visitare i carcerati. Hai iniziato ad aiutare un sacerdote nella sua missione e, a poco a poco, ti sei impegnato sempre di più finché questa è diventata la tua missione personale. Hai scoperto che la tua vita era missionaria. Questa ricerca di fede aiuta a rendere migliore, più evangelico il mondo in cui viviamo. E quello che hai fatto per gli altri ti ha trasformato, ha cambiato il tuo modo di vedere e giudicare le persone. Ti ha resa più giusto e più umano. Hai compreso e hai scoperto come il Signore si è impegnato con te, donandoti una felicità che il mondo non ti potrà togliere (cfr ibid., 177).

Rova, nella tua missione, hai imparato a rinunciare agli aggettivi e a chiamare le persone col loro nome, come fa il Signore con noi. Lui non ci chiama col nostro peccato, con i nostri errori, i nostri sbagli, i nostri limiti, ma lo fa con il nostro nome; ognuno di noi è prezioso ai suoi occhi. Il diavolo, invece, pur conoscendo i nostri nomi, preferisce chiamarci e richiamarci continuamente coi nostri peccati e i nostri errori; e in questo modo ci fa sentire che, qualunque cosa facciamo, nulla può cambiare, tutto rimarrà uguale. Il Signore non agisce così. Il Signore ci ricorda sempre quanto siamo preziosi ai suoi occhi, e ci affida una missione.

Rova, tu hai imparato a conoscere non solo le qualità, ma anche le storie che si nascondono dietro ogni volto. Hai messo da parte la critica veloce e facile, che sempre paralizza, per imparare una cosa che tante persone possono impiegare anni a scoprire. Ti sei reso conto che, in molte persone che sono in prigione, non c’era il male, ma delle cattive scelte. Hanno sbagliato strada, e lo sanno, ma adesso vogliono ricominciare.

Questo ci ricorda uno dei doni più belli che l’amicizia con Gesù può offrirci. «Lui è in te, Lui è con te e non se ne va mai. Per quanto tu ti possa allontanare, accanto a te c’è il Risorto, che ti chiama e ti aspetta per ricominciare» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 2) e per affidarti una missione. È il regalo che Egli invita tutti noi a scoprire e a celebrare quest’oggi.

Sappiamo tutti, anche per esperienza personale, che ci si può smarrire e correre dietro a illusioni che ci fanno promesse e ci incantano con una gioia appariscente, una gioia rapida, facile e immediata, ma che alla fine lasciano il cuore, lo sguardo e l’anima a metà strada. State attenti a coloro che vi promettono strade facili e poi vi lasceranno a metà strada! Quelle illusioni che, quando siamo giovani, ci seducono con promesse che ci anestetizzano, ci tolgono la vitalità, la gioia, ci rendono dipendenti e ci chiudono in un circolo apparentemente senza uscita e pieno di amarezza.

Un’amarezza, non so se sia vero... ma c’è il rischio per voi di pensare: “È così... niente può cambiare e nessuno ci può far nulla”. Soprattutto quando non si dispone del minimo necessario per combattere giorno per giorno; quando le effettive opportunità di studiare non sono sufficienti; o per coloro che si rendono conto che il loro futuro è bloccato a causa della mancanza di lavoro, della precarietà, delle ingiustizie sociali..., e che quindi sono tentati di arrendersi. State attenti davanti a quest’amarezza! State attenti!

Il Signore è il primo a dire: no, non è questa la via. Egli è vivo e vuole che anche tu sia vivo, condividendo tutti i tuoi doni e carismi, le tue ricerche e le tue competenze (cfr ibid., 1). Il Signore ci chiama per nome e ci dice: “Seguimi!”. Non per farci correre dietro a delle illusioni, ma per trasformare ognuno di noi in discepoli-missionari qui e ora. È il primo a confutare tutte le voci che cercano di addormentarvi, di addomesticarvi, di anestetizzarvi o farvi tacere perché non cerchiate nuovi orizzonti. Con Gesù, ci sono sempre nuovi orizzonti. Vuole trasformarci tutti e fare della nostra vita una missione. Ma ci chiede una cosa: ci chiede di non aver paura di sporcarci le mani, di non avere paura di sporcarci le mani.

Attraverso di voi, il futuro entra nel Madagascar e nella Chiesa. Il Signore è il primo ad avere fiducia in voi e invita anche voi ad avere fiducia in voi stessi, ad avere fiducia nelle vostre competenze e capacità, che sono tante. Vi invita a farvi coraggio, uniti a Lui per scrivere la pagina più bella della vostra vita, per superare l’apatia e offrire, come Rova, una risposta cristiana ai molti problemi che dovete affrontare. È il Signore che vi invita a essere i costruttori del futuro (cfr ibid., 174). Voi sarete i costruttori del futuro! Vi invita a portare il contributo che solo voi potete dare, con la gioia e la freschezza della vostra fede. A ognuno di voi – a te, a te, a te, a te,… - chiedo, e ti invito a chiederti: il Signore, può contare su di te? Il tuo popolo malgascio può contare su di te? La tua patria, il Madagascar, può contare su di te?

Ma il Signore non vuole avventurieri solitari. Ci affida una missione, sì, ma non ci manda da soli in prima linea.

Come ha detto bene Vavy Elyssa, è impossibile essere un discepolo missionario da solo: abbiamo bisogno degli altri per vivere e condividere l’amore e la fiducia che il Signore ci dà. L’incontro personale con Gesù è insostituibile, non in maniera solitaria ma in comunità. Sicuramente, ognuno di noi può fare grandi cose, sì; ma insieme possiamo sognare e impegnarci per cose inimmaginabili! Vavy l’ha detto chiaramente. Siamo invitati a scoprire il volto di Gesù nei volti degli altri: celebrando la fede in modo familiare, creando legami di fraternità, partecipando alla vita di un gruppo o di un movimento e incoraggiandoci a tracciare un percorso comune vissuto in solidarietà. Così possiamo imparare a scoprire e discernere le strade che il Signore vi invita a percorrere, gli orizzonti che Lui prepara per voi. Mai isolarsi o voler fare da soli! È una delle peggiori tentazioni che possiamo avere.

In comunità, cioè insieme, possiamo imparare a riconoscere i piccoli miracoli quotidiani, come pure le testimonianze di com’è bello seguire e amare Gesù. E questo spesso in maniera indiretta, come nel caso dei tuoi genitori, Vavy, che, pur appartenendo a due tribù diverse, ognuna con le sue usanze e i suoi costumi, grazie al loro reciproco amore hanno potuto superare tutte le prove e le differenze, e indicarvi una bella via su cui camminare. Una via che viene confermata ogni volta che vi donano i frutti della terra perché siano offerti all’altare. Quanto c’è bisogno di queste testimonianze! O come tua zia e le catechiste e i sacerdoti che le hanno accompagnate e sostenute nel processo della fede. Tutto ha contribuito a generare e incoraggiare il vostro “sì”. Tutti siamo importanti, tutti, tutti siamo necessari e nessuno può dire: “non ho bisogno di te”. Nessuno può dire: “Io non ho bisogno di te”, oppure “non fai parte di questo progetto d’amore che il Padre ha sognato creandoci”.

Adesso vi lancio una sfida: vorrei che tutti insieme dicessimo: nessuno può dire: “non ho bisogno di te”. Tre volte … [lo ripetono tre volte] Siete stati bravi!

Siamo una grande famiglia – sto per finire, tranquilli, perché fa freddo… [ridono] – e possiamo scoprire, cari giovani, che abbiamo una Madre: la protettrice del Madagascar, la Vergine Maria. Sono sempre stato colpito dalla forza del “sì” di Maria da giovane – era giovane come voi. La forza di quell’ “avvenga per me secondo la tua parola” che lei dice all’angelo. Non era un “sì” tanto per dire: “beh, vediamo un po’ che cosa succede”. No. Maria non conosceva l’espressione: “Vediamo che cosa succede”. Lei ha detto “sì”, senza giri di parole. È il “sì” di coloro che vogliono impegnarsi e che sono disposti a rischiare, che vogliono scommettere tutto, senza altra sicurezza che la certezza di sapere che sono portatori di una promessa. Quella ragazza di Nazareth oggi è la Madre che veglia sui suoi figli che camminano nella vita spesso stanchi, bisognosi, ma che desiderano che la luce della speranza non si spenga. Questo è ciò che vogliamo per il Madagascar, per ciascuno di voi e per i vostri amici: che la luce della speranza non si spenga. Nostra Madre guarda questo popolo di giovani che lei ama, che la cercano anche facendo silenzio nel cuore benché ci sia molto rumore, conversazioni e distrazioni lungo la strada; e la supplicano affinché la speranza non si spenga (cfr Christus vivit, 44-48).

A lei voglio affidare la vita di tutti e ciascuno di voi, delle vostre famiglie e dei vostri amici, perché non vi manchi mai la luce della speranza e il Madagascar possa essere sempre più la terra che il Signore ha sognato. Che lei vi accompagni e vi protegga sempre.

E per favore non dimenticatevi di pregare per me.


Domenica, 8 settembre - Madagascar

Santa Messa nel Campo Diocesano di Soamandrakizay

Il Vangelo ci ha detto che «una folla numerosa andava con Gesù» (Lc 14,25). Come quelle folle che si accalcavano lungo il percorso di Gesù, voi siete venuti in gran numero per accogliere il suo messaggio e per mettervi alla sua sequela. Ma voi sapete bene che camminare al seguito di Gesù non è molto riposante! Voi non avete riposato, e tanti di voi avete anche passato la notte qui. Il Vangelo di Luca, infatti, oggi ricorda le esigenze di questo impegno.

È importante notare che queste prescrizioni sono date nel quadro della salita di Gesù a Gerusalemme, tra la parabola del banchetto in cui l’invito è aperto a tutti (specialmente alle persone rifiutate che vivono nelle strade e nelle piazze, nei crocevia) e le tre parabole chiamate della misericordia, dove si organizza la festa quando ciò che è perduto viene trovato, quando colui che sembrava morto è accolto, festeggiato e restituito alla vita nella possibilità di un nuovo inizio. Ogni rinuncia cristiana ha significato solo alla luce della gioia e della festa dell’incontro con Gesù Cristo.

La prima esigenza ci invita a guardare alle nostre relazioni familiari. La vita nuova che il Signore ci propone sembra scomoda e si trasforma in scandalosa ingiustizia per coloro che credono che l'accesso al Regno dei Cieli possa limitarsi o ridursi solamente ai legami di sangue, all’appartenenza a un determinato gruppo, a un clan o una cultura particolare. Quando la “parentela” diventa la chiave decisiva e determinante di tutto ciò che è giusto e buono, si finisce per giustificare e persino “consacrare” alcuni comportamenti che portano alla cultura del privilegio e dell’esclusione (favoritismi, clientelismi, e quindi corruzione). L’esigenza posta dal Maestro ci porta ad alzare lo sguardo e ci dice: chiunque non è in grado di vedere l’altro come un fratello, di commuoversi per la sua vita e la sua situazione, al di là della sua provenienza familiare, culturale, sociale, «non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Il suo amore e la sua dedizione sono un dono gratuito a motivo di tutti e per tutti.

La seconda esigenza ci mostra come risulti difficile seguire il Signore quando si vuole identificare il Regno dei Cieli con i propri interessi personali o con il fascino di qualche ideologia che finisce per strumentalizzare il nome di Dio o la religione per giustificare atti di violenza, di segregazione e persino di omicidio, esilio, terrorismo ed emarginazione. L’esigenza del Maestro ci incoraggia a non manipolare il Vangelo con tristi riduzionismi, bensì a costruire la storia in fraternità e solidarietà, nel rispetto gratuito della terra e dei suoi doni contro qualsiasi forma di sfruttamento; con l’audacia di vivere il «dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio» (Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019); non cedendo alla tentazione di certe dottrine incapaci di vedere crescere insieme grano e zizzania nell’attesa del padrone della messe (cfr Mt 13,24-30).

E infine: come può essere difficile condividere la nuova vita che il Signore ci dona quando siamo continuamente spinti a giustificare noi stessi, credendo che tutto provenga esclusivamente dalle nostre forze e da ciò che possediamo; quando la corsa ad accumulare diventa assillante e opprimente – come abbiamo ascoltato nella prima Lettura – esacerbando l’egoismo e l’uso di mezzi immorali! L’esigenza del Maestro è un invito a recuperare la memoria grata e a riconoscere che, piuttosto che una vittoria personale, la nostra vita e le nostre capacità sono il risultato di un dono (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 55), intessuto tra Dio e tante mani silenziose di persone delle quali arriveremo a conoscere i nomi solo nella manifestazione del Regno dei Cieli.

Con queste esigenze, il Signore vuole preparare i suoi discepoli alla festa dell’irruzione del Regno di Dio, liberandoli da quell’ostacolo rovinoso, in definitiva una delle peggiori schiavitù: il vivere per sé stessi. È la tentazione di chiudersi nel proprio piccolo mondo che finisce per lasciare poco spazio agli altri: i poveri non entrano più, la voce di Dio non è più ascoltata, non si gode più la dolce gioia del suo amore, non palpita più l’entusiasmo di fare il bene... Molti, in questo rinchiudersi, possono sentirsi apparentemente sicuri, ma alla fine diventano persone risentite, lamentose, senza vita. Questa non è la scelta di un’esistenza dignitosa e piena, questo non è il desiderio di Dio per noi, non è la vita nello Spirito che scaturisce dal cuore di Cristo risorto (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 2).

Sulla strada verso Gerusalemme, il Signore, con queste esigenze, ci invita ad alzare lo sguardo, ad aggiustare le priorità e soprattutto creare spazi affinché Dio sia il centro e il cardine della nostra vita.

Guardiamoci intorno: quanti uomini e donne, giovani, bambini soffrono e sono totalmente privi di tutto! Questo non fa parte del piano di Dio. Quanto è urgente questo invito di Gesù a morire alle nostre chiusure, ai nostri orgogliosi individualismi per lasciare che lo spirito di fraternità – che promana dal costato aperto di Cristo, da dove nasciamo come famiglia di Dio – trionfi, e ciascuno possa sentirsi amato, perché compreso, accettato e apprezzato nella sua dignità. «Davanti alla dignità umana calpestata spesso si rimane a braccia conserte oppure si aprono le braccia, impotenti di fronte all’oscura forza del male. Ma il cristiano non può stare a braccia conserte, indifferente, o a braccia aperte, fatalista, no. Il credente tende la mano, come fa Gesù con lui» (Omelia in occasione della Giornata mondiale dei poveri, 18 novembre 2018).

La Parola di Dio che abbiamo ascoltato ci invita a riprendere il cammino, a osare questo salto di qualità e adottare questa saggezza del distacco personale come base per la giustizia e per la vita di ognuno di noi: perché insieme possiamo combattere tutte quelle idolatrie che ci portano a focalizzare la nostra attenzione sulle ingannevoli sicurezze del potere, della carriera e del denaro e sulla ricerca di glorie umane.

Le esigenze che Gesù indica cessano di essere pesanti quando iniziamo a gustare la gioia della vita nuova che Egli stesso ci propone: la gioia che nasce dal sapere che Lui è il primo a venirci a cercare agli incroci delle strade, anche quando ci siamo persi come quella pecora o quel figlio prodigo. Possa questo umile realismo – è un realismo, realismo cristiano – spingerci ad affrontare grandi sfide, e dia a voi il desiderio di rendere il vostro bel Paese un luogo in cui il Vangelo possa diventare vita, e la vita sia per la maggior gloria di Dio.

Decidiamoci e facciamo nostri i progetti del Signore.


Angelus

Cari fratelli e sorelle, al termine di questa celebrazione, desidero rivolgere un cordiale saluto a tutti voi! Ringrazio di cuore Mons. Razanakolona per le parole che mi ha rivolto, e con lui gli altri fratelli Vescovi presenti, i sacerdoti, le persone consacrate, i coniugi con le loro famiglie, i catechisti e voi tutti fedeli. Colgo questa occasione per esprimere la mia viva riconoscenza al Signor Presidente della Repubblica e a tutte le Autorità civili del Paese per la loro premurosa accoglienza, e la estendo a ciascuno di quanti, in diversi modi, hanno contribuito alla buona riuscita di questa mia visita. Il Signore vi ricompensi e benedica tutto il vostro popolo, per intercessione del Beato Rafael Luis Rafiringa, le cui reliquie sono esposte qui presso l’altare, e dalla Beata Victoire Rasoamanarivo. Ed ora ci rivolgiamo in preghiera alla Vergine Santa, nel giorno in cui ricordiamo la sua nascita, aurora di salvezza per l’umanità. Maria Immacolata, che voi amate e venerate come vostra Madre e Patrona, accompagni sempre il cammino del Madagascar nella pace e nella speranza.


Visita alla Città dell'Amicizia - Akamasoa

Buonasera a tutti voi! Buonasera!

È una gioia per me, una grande gioia ritrovare il mio ex-allievo: padre Pedro era mio allievo alla Facoltà teologica negli anni 1967-68. Lui, poi, non ha più studiato, ha trovato l’amore per il lavoro, per lavorare. Tante grazie, padre!]

È una grande gioia per me trovarmi in mezzo a voi in questa grande opera. Akamasoa è l’espressione della presenza di Dio in mezzo al suo popolo povero; non una presenza sporadica, occasionale: è la presenza di un Dio che ha deciso di vivere e rimanere sempre in mezzo al suo popolo.

Siete numerosi stasera, proprio nel cuore di questa “Città dell’amicizia”, che avete costruito con le vostre mani e che – non ne dubito – continuerete a costruire affinché molte famiglie possano vivere con dignità! Vedendo i vostri volti radiosi, rendo grazie al Signore che ha ascoltato il grido dei poveri e che ha manifestato il suo amore con segni tangibili come la creazione di questo villaggio. Le vostre grida generate dal non poter più vivere senza un tetto, vedere i figli crescere nella malnutrizione, non avere un lavoro, generate dallo sguardo indifferente per non dire sprezzante di molti, si sono trasformate in canti di speranza per voi e per tutti quelli che vi guardano. Ogni angolo di questi quartieri, ogni scuola o dispensario è un canto di speranza che smentisce e mette a tacere ogni fatalità. Diciamolo con forza: la povertà non è una fatalità.

Questo villaggio, infatti, porta in sé una lunga storia di coraggio e di aiuto reciproco. Questa gente è il risultato di molti anni di duro lavoro. Alla base troviamo una fede viva che si è tradotta in azioni concrete capaci di “spostare le montagne”. Una fede che ha permesso di vedere possibilità là dove si vedeva solo precarietà, di vedere speranza dove si vedeva solo fatalità, di vedere vita dove tanti annunciavano morte e distruzione. Ricordate ciò che scriveva l’apostolo Giacomo: «La fede se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta» (2,17). Le basi del lavoro fatto insieme, del senso di famiglia e di comunità hanno reso possibile ripristinare in maniera artigianale e paziente la fiducia non solo dentro di voi, ma tra di voi, fiducia che vi ha permesso di essere i protagonisti e gli artefici di questa storia. Un’educazione ai valori grazie alla quale quelle prime famiglie che iniziarono l’avventura con padre Opeka hanno potuto trasmettere l’enorme tesoro di impegno, disciplina, onestà, rispetto di sé stessi e degli altri. E avete potuto capire che il sogno di Dio non è solo il progresso personale ma soprattutto quello comunitario; che non c’è peggior schiavitù – come ci ha ricordato padre Pedro – di vivere ognuno solo per sé.

Cari giovani di Akamasoa, vorrei rivolgere a voi un messaggio particolare: non arrendetevi mai davanti agli effetti nefasti della povertà, non cedete mai alle tentazioni della vita facile o del ripiegarvi su voi stessi. Grazie, Fanny, per questa bella testimonianza che ci hai dato a nome dei giovani del villaggio. Cari giovani, questo lavoro realizzato dai vostri anziani, sta a voi portarlo avanti. La forza per farlo la troverete nella vostra fede e nella testimonianza viva che è stata plasmata nella vostra vita.Lasciate sbocciare in voi i doni che il Signore vi ha fatto. Chiedetegli di aiutarvi a mettervi generosamente al servizio dei vostri fratelli e sorelle. Così Akamasoa non sarà soltanto un esempio per le generazioni future ma, soprattutto, il punto di partenza di un’opera ispirata da Dio che troverà il suo pieno sviluppo nella misura in cui continuerà a testimoniare l’amore alle generazioni presenti e future.

Preghiamo perché in tutto il Madagascar e in altre parti del mondo si diffonda lo splendore di questa luce, e possiamo raggiungere modelli di sviluppo che privilegino la lotta contro la povertà e l’inclusione sociale a partire dalla fiducia, dall’educazione, dal lavoro e dall’impegno, che sono sempre indispensabili per la dignità della persona umana.

Grazie, amici di Akamasoa, cari padre Pedro e i collaboratori, grazie ancora una volta per la vostra testimonianza profetica, per la vostra testimonianza generatrice di speranza. Che Dio continui a benedirvi.

Vi chiedo per favore di non dimenticarvi di pregare per me.


Preghiera per i Lavoratori nel Cantiere di Mahatzana

Dio nostro Padre, creatore del cielo e della terra,
ti ringraziamo di averci riuniti come fratelli in questo luogo,
di fronte a questa roccia spezzata dal lavoro dell’uomo:
noi ti preghiamo per tutti i lavoratori.

Per quelli che lo fanno con le loro mani
e con enorme sforzo fisico.
Preserva i loro corpi dal troppo logorarsi:
non manchino loro la tenerezza e la capacità di accarezzare
i loro figli e di giocare con loro.
Concedi ad essi il vigore dell’anima e la salute del corpo
perché non restino schiacciati dal peso del loro compito.

Fa’ che il frutto del lavoro permetta ad essi
di assicurare una vita dignitosa alle loro famiglie.
Che trovino in esse, alla sera, calore, conforto e incoraggiamento,
e che insieme, riuniti sotto il tuo sguardo,
conoscano le gioie più vere.

Sappiano le nostre famiglie che la gioia di guadagnare il pane
è perfetta quando questo pane è condiviso.
Che i nostri bambini non siano costretti a lavorare,
possano andare a scuola e proseguire i loro studi,
e i loro professori consacrino tempo a questo compito,
senza aver bisogno di altre attività per la sussistenza quotidiana.

Dio di giustizia, tocca il cuore di imprenditori e dirigenti:
provvedano a tutto ciò che è necessario
per assicurare a quanti lavorano un salario dignitoso
e condizioni rispettose della loro dignità di persone umane.

Prenditi cura con la tua paterna misericordia
di coloro che sono senza lavoro,
e fa’ che la disoccupazione – causa di tante miserie –
sparisca dalle nostre società.

Ognuno conosca la gioia e la dignità di guadagnarsi il pane
per portarlo a casa e mantenere i suoi cari.

Padre, crea tra i lavoratori uno spirito di vera solidarietà.
Sappiano essere attenti gli uni agli altri,
incoraggiarsi a vicenda, sostenere chi è sfinito,
rialzare chi è caduto.

Il loro cuore non ceda mai all’odio, al rancore, all’amarezza
davanti all’ingiustizia, ma conservino viva la speranza
di vedere un mondo migliore e lavorare per esso.

Sappiano, insieme, in modo costruttivo,
far valere i loro diritti
e le loro voci e il loro grido siano ascoltati.

Dio, nostro Padre, tu hai dato come protettore
ai lavoratori del mondo intero San Giuseppe,
padre putativo di Gesù, sposo coraggioso della Vergine Maria.
Affido a lui tutti coloro che lavorano qui, ad Akamasoa,
e tutti i lavoratori del Madagascar, specialmente quelli
che conducono una vita precaria e difficile.
Egli li custodisca nell’amore del tuo Figlio
e li sostenga nella loro vita e nella loro speranza.

Amen.


Incontro con i Sacerdoti, Religiosi/e, Consacrati e Seminaristi nel Collège Saint Michel

Cari fratelli e sorelle, io pensavo che quando mi portavano questo tavolo era per mangiare, e invece no, è per parlare!

Vi ringrazio per il vostro caloroso benvenuto. Desidero che le mie prime parole siano rivolte in particolare a tutti i sacerdoti, alle consacrate e ai consacrati che non hanno potuto viaggiare per problemi di salute, per il peso degli anni o per qualche inconveniente. Una preghiera tutti insieme per loro, in silenzio. [Pregano in silenzio]

Nel concludere la mia visita in Madagascar qui con voi, vedendo la vostra gioia, ma anche ripensando a tutto ciò che ho vissuto in questo breve tempo nella vostra Isola, mi salgono al cuore quelle parole di Gesù nel Vangelo di Luca quando, commosso per la gioia, disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (10,21); e questa gioia è confermata dalle vostre testimonianze, perché, anche quelli che manifestate come problemi, sono segni di una Chiesa viva, una Chiesa impegnata, che cerca ogni giorno di essere presenza del Signore. Una Chiesa, come ha detto suor Suzanne, che cerca ogni giorno di essere più vicina al popolo: non staccarsi dal popolo, sempre camminare con il popolo di Dio!

Questa realtà è un invito a fare memoria riconoscente di tutti coloro che non hanno avuto paura e hanno saputo scommettere su Gesù Cristo e il suo Regno; e voi oggi partecipate alla loro eredità. Prima di voi, ci sono le radici: le radici dell’evangelizzazione, qui. Voi siete l’eredità. E anche voi lascerete un’eredità agli altri. Penso ai Lazzaristi, ai Gesuiti, alle Suore di San Giuseppe di Cluny, ai Fratelli delle Scuole Cristiane, ai Missionari della Salette e a tutti gli altri pionieri, vescovi, sacerdoti e consacrati. Ma anche a tanti laici che, nei tempi difficili di persecuzione, quando molti missionari e consacrati dovettero andar via, furono quelli che mantennero viva la fiamma della fede in queste terre. Questo ci invita a ricordare il nostro Battesimo, quale primo e grande Sacramento grazie al quale abbiamo ricevuto il sigillo di figli di Dio. Tutto il resto è espressione e manifestazione di quell’amore iniziale che siamo sempre invitati a rinnovare.

La frase del Vangelo alla quale ho fatto riferimento fa parte della preghiera di lode elevata dal Signore quando accolse i settantadue discepoli che ritornavano dalla missione. Essi, come voi, hanno accettato la sfida di essere una chiesa “in uscita” e portano le sacche piene per condividere tutto ciò che hanno visto e udito. Voi avete osato uscire e avete accettato la sfida di portare la luce del Vangelo in ogni angolo di questa Isola.

So che molti di voi vivono in condizioni difficili, dove mancano i servizi essenziali – acqua, elettricità, strade, mezzi di comunicazione – o le risorse economiche per portare avanti la vita e l’attività pastorale. Parecchi di voi portano sulle loro spalle, per non dire sulla loro salute, il peso delle fatiche apostoliche. Tuttavia scegliete di rimanere e stare accanto alla vostra gente, vicini alla vostra gente, con la vostra gente. Grazie per questo! Grazie di cuore per la vostra testimonianza di essere vicini alla gente, grazie per aver voluto restare lì e non fare della vocazione un “passaggio a una vita migliore”! Grazie di questo. E restare lì con consapevolezza, come diceva la sorella, suor Suzanne: “Malgrado le nostre miserie e debolezze, ci impegniamo con tutto noi stessi nella grande missione dell’evangelizzazione”. La persona consacrata (nel senso ampio della parola) è la donna, è l’uomo che ha imparato e vuole rimanere, nel cuore del suo Signore e nel cuore del suo popolo. Questa è la chiave: rimanere nel cuore del Signore e nel cuore del popolo!

Accogliendo e ascoltando i suoi discepoli che tornano pieni di gioia, la prima cosa che Gesù fa è lodare e benedire il Padre suo, e questo ci indica un aspetto fondamentale della nostra vocazione. Siamo uomini e donne di lode. La persona consacrata è in grado di riconoscere e indicare la presenza di Dio dovunque si trovi. Inoltre, vuole vivere alla sua presenza, che ha imparato ad assaporare, gustare e condividere.

Nella lode troviamo la nostra più bella appartenenza e identità, perché essa libera il discepolo dall’ansia per il “si dovrebbe fare…” –quell’ansia che è un tarlo, un tarlo che rovina – e gli restituisce il gusto per la missione e per stare con la sua gente; lo aiuta ad aggiustare i “criteri” con cui misura sé stesso, gli altri e tutta l’attività missionaria, perché non abbiano alle volte poco sapore di Vangelo.

Spesso possiamo cadere nella tentazione di passare ore a parlare dei “successi” o dei “fallimenti”, dell’“utilità” delle nostre azioni o della “influenza” che possiamo avere, nella società, o in qualunque ambito. Discussioni che finiscono per occupare il primo posto e il centro di tutta la nostra attenzione. E questo ci porta – non di rado – a sognare programmi apostolici sempre più grandi, meticolosi e ben disegnati... ma tipici dei generali sconfitti e che alla fine negano la nostra storia – come quella della vostra gente – che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio e nella perseveranza del lavoro faticoso (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 96).

Nella lode impariamo la sensibilità per non “perdere la bussola” e non fare dei mezzi i nostri fini, e del superfluo ciò che è importante; impariamo la libertà di mettere in atto dei processi piuttosto che voler occupare spazi (cfr ibid., 223); la gratuità di promuovere tutto ciò che fa crescere, maturare e fruttificare il Popolo di Dio piuttosto che inorgoglirci di un certo “reddito” pastorale facile, veloce ma effimero. In un certo senso, gran parte della nostra vita, della nostra gioia e fecondità missionaria si gioca su questo invito di Gesù alla lode. Come amava sottolineare quell’uomo saggio e santo che è stato Romano Guardini: «Colui che adora Dio nei suoi sentimenti più profondi e anche, quando ne ha il tempo, effettivamente, con gesti concreti, si trova al riparo nella verità. Può sbagliare in molte cose; può trovarsi a disagio o sconcertato per il peso delle sue azioni; ma, in definitiva, la direzione e l’ordine della sua esistenza sono al sicuro» (Glaubens-erkenntnis, Mainz 31997, p. 17), nella lode, nell’adorazione.

I settantadue erano consapevoli che il successo della missione era dipeso dall’averla compiuta “nel nome del Signore Gesù”. Questo li stupiva. Non era stato per le loro virtù, per i loro nomi o titoli; non portavano volantini di propaganda con i loro volti; non erano la loro fama o il loro progetto ad affascinare e salvare le persone. La gioia dei discepoli nasceva dalla certezza di fare le cose nel nome del Signore, di vivere il suo progetto, di condividere la sua vita; e questa li aveva fatti innamorare al punto da spingerli anche a condividerla con gli altri.

Ed è interessante notare che Gesù riassume l’operato dei suoi discepoli parlando della vittoria sul potere di Satana, un potere che non potremo mai vincere con le nostre sole forze, ma certo lo potremo nel nome di Gesù. Ognuno di noi può dare testimonianza di quelle battaglie... e anche di alcune sconfitte. Quando voi menzionate gli innumerevoli campi in cui svolgete la vostra azione evangelizzatrice, state sostenendo quella lotta nel nome di Gesù. Nel suo nome, sconfiggete il male quando insegnate a lodare il Padre celeste e quando insegnate con semplicità il Vangelo e il catechismo. Quando visitate e assistete un malato o portate il conforto della riconciliazione. Nel suo nome, voi vincete dando da mangiare a un bambino, salvando una madre dalla disperazione di essere sola a fare tutto, o procurando un lavoro a un padre di famiglia... È una lotta, una lotta vincente quella che si combatte contro l’ignoranza fornendo educazione; è portare la presenza di Dio anche quando qualcuno aiuta a far rispettare, nel loro ordine e nella loro perfezione, tutte le creature evitando che siano usate o sfruttate; e sono segni della vostra vittoria anche piantare un albero o far arrivare l’acqua potabile a una famiglia. Che segno di sconfitta del male è quando vi impegnate perché migliaia di persone recuperino la salute!

Continuate in queste battaglie, ma sempre nella preghiera e nella lode, nella lode di Dio!

La lotta la viviamo anche in noi stessi. Dio spazza via l’influsso dello spirito malvagio, quello che tante volte ci trasmette «una preoccupazione esagerata per gli spazi personali di autonomia e di distensione, che porta a vivere i propri compiti come una mera appendice della vita, come se non facessero parte della propria identità. Nel medesimo tempo, la vita spirituale si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 78). In questo modo, più che uomini e donne di lode, possiamo diventare “professionisti del sacro”. Al contrario, sconfiggiamo lo spirito malvagio sul suo stesso terreno: lì dove ci invita ad aggrapparci a sicurezze economiche, spazi di potere e di gloria umana, rispondiamo con la disponibilità e la povertà evangelica che ci porta a dare la vita per la missione (cfr ibid., 76). Per favore, non lasciamoci rubare la gioia missionaria!

Cari fratelli e sorelle, Gesù loda il Padre perché ha rivelato queste cose ai “piccoli”. Siamo piccoli perché la nostra gioia, la nostra felicità, è proprio questa rivelazione che Lui ci ha dato; il semplice “vedi e ascolta” ciò che né saggi, né profeti, né re possono vedere e ascoltare: cioè la presenza di Dio nei malati e negli afflitti, in coloro che hanno fame e sete di giustizia, nei misericordiosi (cfr Mt 5,3-12; Lc 6,20-23). Beati voi, beata Chiesa dei poveri e per i poveri, perché vive impregnata del profumo del suo Signore, vive gioiosa annunciando la Buona Notizia agli scartati della terra, a quelli che sono i favoriti di Dio.

Trasmettete alle vostre comunità il mio affetto e la mia vicinanza, la mia preghiera e la mia benedizione. In questa benedizione che vi darò nel nome del Signore vi invito a pensare alle vostre comunità, ai vostri luoghi di missione, perché il Signore continui a benedire tutte quelle persone là dove si trovano. Possiate continuare a essere segno della sua presenza viva in mezzo a noi.

E per favore, non dimenticatevi di pregare e far pregare per me.


Santa Messa al Monumento di Maria Regina della Pace

Qui, di fronte a questo altare dedicato a Maria, Regina della Pace, su questo monte da cui si vede la città e più in là il mare, ci troviamo a far parte di quella moltitudine di volti che sono venuti da Mauritius e da altre isole di questa regione dell’Oceano Indiano per ascoltare Gesù che annuncia le Beatitudini. La stessa Parola di Vita che, come duemila anni fa, ha la stessa forza, lo stesso fuoco che fa ardere anche i cuori più freddi. Insieme possiamo dire al Signore: crediamo in te e, con la luce della fede e il palpito del cuore, sappiamo che è verità la profezia di Isaia: annunci la pace e la salvezza, porti buone notizie... regna il nostro Dio.

Le Beatitudini «sono come la carta d’identità del cristiano. Così, se qualcuno di noi si pone la domanda: “Come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?”, la risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle Beatitudini. In esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 63), come ha fatto il cosiddetto “apostolo dell’unità mauriziana”, il Beato Jacques-Désiré Laval, tanto venerato in queste terre. L’amore per Cristo e per i poveri segnò la sua vita in modo tale da proteggerlo dall’illusione di compiere un’evangelizzazione “distante e asettica”. Sapeva che evangelizzare comporta farsi tutto a tutti (cfr 1Cor 9,19-22): imparò la lingua degli schiavi appena liberati e annunciò loro in maniera semplice la Buona Notizia della salvezza. Ha saputo radunare i fedeli e li ha formati ad intraprendere la missione e creare piccole comunità cristiane in quartieri, città e villaggi vicini, piccole comunità molte delle quali sono all’origine delle attuali parrocchie. Era sollecito nel dare fiducia ai più poveri e agli scartati, in modo che fossero i primi a organizzarsi e trovare risposte alle loro sofferenze.

Attraverso il suo dinamismo missionario e il suo amore, il Padre Laval ha dato alla Chiesa mauriziana una nuova giovinezza, un nuovo respiro che oggi siamo invitati a continuare nel contesto attuale.

E questo slancio missionario dev’essere conservato, perché può darsi che, come Chiesa di Cristo, cadiamo nella tentazione di perdere l’entusiasmo evangelizzatore rifugiandoci in sicurezze mondane che, a poco a poco, non solo condizionano la missione ma la rendono pesante e incapace di attirare la gente (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 26). Lo slancio missionario ha un volto giovane e capace di ringiovanire. Sono proprio i giovani che, con la loro vitalità e dedizione, possono apportare ad esso la bellezza e la freschezza tipica della giovinezza, quando provocano la comunità cristiana a rinnovarsi e ci invitano a partire verso nuovi orizzonti (cfr Esort. ap. postsin. Christus vivit, 37).

Ma questo non è sempre facile, perché richiede che impariamo a riconoscere e fornire ad essi un posto in seno alla nostra comunità e alla nostra società.

Ma com’è duro constatare che, nonostante la crescita economica che il vostro Paese ha avuto negli ultimi decenni, sono i giovani a soffrire di più, sono loro a risentire maggiormente della disoccupazione che non solo provoca un futuro incerto, ma inoltre toglie ad essi la possibilità di sentirsi protagonisti della loro storia comune. Futuro incerto che li spinge fuori strada e li costringe a scrivere la loro vita tante volte ai margini, lasciandoli vulnerabili e quasi senza punti di riferimento davanti alle nuove forme di schiavitù di questo secolo XXI. Loro, i nostri giovani, sono la prima missione! Dobbiamo invitarli a trovare la loro felicità in Gesù, non in maniera asettica o a distanza, ma imparando a dare loro un posto, conoscendo il loro linguaggio, ascoltando le loro storie, vivendo al loro fianco, facendo loro sentire che sono benedetti da Dio. Non lasciamoci rubare il volto giovane della Chiesa e della società! Non permettiamo ai mercanti di morte di rubare le primizie di questa terra!

I nostri giovani e quanti come loro sentono di non avere voce perché sono immersi nella precarietà, Padre Laval li inviterebbe a far risuonare l’annuncio di Isaia: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9). Anche quando ciò che ci circonda può sembrare senza soluzione, la speranza in Gesù ci chiede di recuperare la certezza del trionfo di Dio non solo al di là della storia ma anche nella trama nascosta delle piccole storie che si intrecciano e che ci vedono protagonisti della vittoria di Colui che ci ha donato il Regno.

Per vivere il Vangelo, non possiamo aspettare che tutto intorno a noi sia favorevole, perché spesso le ambizioni del potere e gli interessi mondani giocano contro di noi. San Giovanni Paolo II ha affermato che «è alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione [del] dono [di sé] e il costituirsi [della] solidarietà interumana»(Enc. Centesimus annus, 41c). In una società così diventa difficile vivere le Beatitudini; può persino diventare qualcosa di malvisto, sospettato, ridicolizzato (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 91). È vero, ma non possiamo lasciarci vincere dallo scoraggiamento.

Ai piedi di questo monte, che oggi vorrei fosse il monte delle Beatitudini, anche noi dobbiamo recuperare questo invito a essere felici. Solo i cristiani gioiosi suscitano il desiderio di seguire quella strada; « La parola “felice” o “beato” diventa sinonimo di “santo”, perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine» (ibid., 64).

Quando sentiamo il minaccioso pronostico “siamo sempre di meno”, dovremmo prima di tutto preoccuparci non della diminuzione di questa o quella forma di consacrazione nella Chiesa, ma piuttosto della carenza di uomini e donne che vogliono vivere la felicità facendo percorsi di santità, uomini e donne che facciano ardere il loro cuore con l’annuncio più bello e liberatore. «Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, senza la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, vivono senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 49).

Quando un giovane vede un progetto di vita cristiana realizzato con gioia, questo lo entusiasma e lo incoraggia e sente un desiderio che può esprimere in questo modo: “Voglio salire su quel monte delle Beatitudini, voglio incontrare lo sguardo di Gesù e che Lui mi dica qual è il mio cammino di felicità”.

Preghiamo, cari fratelli e sorelle, per le nostre comunità, perché dando testimonianza della gioia della vita cristiana, vedano fiorire la vocazione alla santità nelle diverse forme di vita che lo Spirito ci propone. Imploriamolo per questa diocesi, e anche per le altre che oggi hanno fatto lo sforzo di venire qui. Padre Laval, il Beato di cui veneriamo le reliquie, ha pure vissuto momenti di delusione e difficoltà con la comunità cristiana, ma alla fine il Signore ha vinto nel suo cuore. Ha avuto fiducia nella forza del Signore. Lasciamo che essa tocchi i cuori di tanti uomini e donne di questa terra, lasciamo che tocchi anche i nostri cuori, perché la sua novità rinnovi la nostra vita e quella della nostra comunità (cfr ibid., 11). E non dimentichiamo che Colui che chiama con forza, Colui che costruisce la Chiesa, è lo Spirito Santo, con la sua forza. Lui è il protagonista della missione, Lui è il protagonista della Chiesa.

L’immagine di Maria, la Madre che ci protegge e ci accompagna, ci ricorda che lei è stata chiamata la “beata”. A lei, che ha vissuto il dolore come una spada che le trafigge il cuore, a lei, che ha attraversato la peggiore soglia di dolore che è vedere morire il suo figlio, chiediamo il dono dell’apertura allo Spirito Santo, della gioia perseverante, quella che non si abbatte e non indietreggia, quella che sempre fa sperimentare e affermare: “Grandi cose fa l’Onnipotente, e santo è il suo nome”.


Incontro con le Autorità, la Società civile e il Corpo Diplomatico nel Palazzo Presidenziale

Saluto cordialmente le Autorità dello Stato di Mauritius e le ringrazio per l’invito a visitare la vostra Repubblica. Ringrazio il Signor Presidente e il Signor Primo Ministro per le gentili parole che mi hanno appena rivolto, nonché per il loro benvenuto. Saluto i membri del Governo, della società civile e del Corpo Diplomatico. Desidero anche salutare e ringraziare fraternamente per la loro presenza oggi i rappresentanti di altre confessioni cristiane e delle diverse religioni presenti sull’Isola Mauritius.

Sono lieto, grazie a questa breve visita, di poter incontrare il vostro popolo, caratterizzato non solo da un volto multiforme sul piano culturale, etnico e religioso, ma soprattutto dalla bellezza che deriva dalla vostra capacità di riconoscere, rispettare e armonizzare le differenze in funzione di un progetto comune. Così è tutta la storia del vostro popolo, che è nato con l’arrivo di migranti venuti da diversi orizzonti e continenti, portando le loro tradizioni, la loro cultura e la loro religione, e che hanno imparato, a poco a poco, ad arricchirsi con le differenze degli altri e a trovare il modo di vivere insieme cercando di costruire una fraternità attenta al bene comune.

In questo senso avete una voce autorevole – perché fattasi vita –, in grado di ricordare che è possibile raggiungere una pace stabile a partire dalla convinzione che «la diversità è bella quando accetta di entrare costantemente in un processo di riconciliazione, fino a sigillare una specie di patto culturale che faccia emergere una “diversità riconciliata”» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 230). Questa è base e opportunità per la costruzione di una effettiva comunione all’interno della grande famiglia umana senza la necessità di emarginare, escludere o respingere.

Il DNA del vostro popolo conserva la memoria di quei movimenti migratori che hanno portato i vostri antenati su questa isola e che li hanno anche condotti ad aprirsi alle differenze per integrarle e promuoverle in vista del bene di tutti. Ecco perché vi incoraggio, nella fedeltà alle vostre radici, ad accettare la sfida dell’accoglienza e della protezione dei migranti che oggi vengono qui per trovare lavoro e, per molti di loro, migliori condizioni di vita per le loro famiglie. Abbiate a cuore di accoglierli come i vostri antenati hanno saputo accogliersi a vicenda, quali protagonisti e difensori di una vera cultura dell’incontro che consente ai migranti (e a tutti) di essere riconosciuti nella loro dignità e nei loro diritti.

Nella storia recente del vostro popolo, merita apprezzamento la tradizione democratica instaurata a partire dall’indipendenza e che contribuisce a fare dell’Isola Mauritius un’oasi di pace. Auspico che questo stile di vita democratica possa essere coltivato e sviluppato, combattendo in particolare contro ogni forma di discriminazione. Poiché «la vita politica autentica, che si fonda sul diritto e su un dialogo leale tra i soggetti, si rinnova con la convinzione che ogni donna, ogni uomo e ogni generazione racchiudono in sé una promessa che può sprigionare nuove energie relazionali, intellettuali, culturali e spirituali» (Messaggio per la 52ª Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2019).Voi che siete impegnati nella vita politica della Repubblica di Mauritius, possiate essere un esempio per coloro che contano su di voi, specialmente per i giovani. Col vostro comportamento e la volontà di combattere tutte le forme di corruzione, possiate manifestare il valore dell’impegno al servizio del bene comune ed essere sempre degni della fiducia dei vostri connazionali.

Dalla sua indipendenza, il vostro Paese ha registrato un forte sviluppo economico, del quale, senza dubbio, dobbiamo rallegrarci, rimanendo al tempo stesso vigilanti. Nel contesto attuale, spesso risulta che la crescita economica non vada sempre a vantaggio di tutti e che lasci da parte – per certe strategie della sua dinamica – un certo numero di persone, specialmente i giovani. Perciò vorrei incoraggiarvi a sviluppare una politica economica orientata alle persone e che sappia privilegiare una migliore distribuzione delle entrate, la creazione di opportunità di lavoro e una promozione integrale dei più poveri (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 204). Incoraggiarvi a non cedere alla tentazione di un modello economico idolatrico che ha bisogno di sacrificare vite umane sull’altare della speculazione e della mera redditività, che tiene conto solo del beneficio immediato a scapito della protezione dei più poveri, dell’ambiente e delle sue risorse. Si tratta di andare avanti con quell’atteggiamento costruttivo che, come ha scritto il Card. Piat in occasione del 50° anniversario dell’indipendenza di Mauritius, spinge a incentivare una conversione ecologica integrale. Tale conversione mira non solo a evitare terribili fenomeni climatici o grandi disastri naturali, ma cerca anche di promuovere un cambiamento negli stili di vita in modo che la crescita economica possa davvero giovare a tutti, senza correre il rischio di provocare catastrofi ecologiche o gravi crisi sociali.

Signore e Signori, desidero esprimere apprezzamento per il modo in cui a Mauritius le diverse religioni, con le loro rispettive identità, collaborano insieme per contribuire alla pace sociale e per ricordare il valore trascendente della vita contro ogni tipo di riduzionismo. E ribadisco la disponibilità dei cattolici di Mauritius di continuare a partecipare a questo fruttuoso dialogo che ha segnato così fortemente la storia del vostro popolo. Grazie per la vostra testimonianza.

Grazie ancora per la vostra calorosa accoglienza. Auspico di cuore che Dio benedica il vostro popolo e tutti gli sforzi che fate per favorire l’incontro tra culture, civiltà e tradizioni religiose diverse nella promozione di una società giusta, che non dimentica i suoi figli, specialmente quelli più bisognosi. Che il suo amore e la sua misericordia continuino ad accompagnarvi e proteggervi! Grazie tante per la vostra attenzione.


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