Un ricordo di Gilberto Balducci

Il 18 dicembre è tornato alla casa del Padre Gilberto Balducci, uno dei fondatori dell'ELIS di Roma. Vi riportiamo alcuni stralci dell'omelia tenuta durante il suo funerale e una intervista in cui spiegava il suo modo di vivere il rapporto tra lavoro e Dio.

Ai funerali di Gilberto Balducci, la mattina del 19 dicembre, la parrocchia di S. Giovanni Battista in Collatino a Roma era piena. Si vedevano uno accanto all'altro allievi della Scuola Professionale dell'ELIS di ogni età, fino a quelli di oggi, insieme ai loro professori, alcuni dei quali sono stati a loro volta allievi diretti o indiretti di Gilberto.

Nell'omelia, don Carlo De Marchi, vicario dell'Opus Dei per l'Italia Centro-Sud, ha mostrato un vecchio libretto:

"Si tratta della copia del Vangelo che Gilberto leggeva tutti i giorni. Gilberto - ha ricordato don Carlo - faceva quello che Papa Francesco raccomanda a tutti i cristiani: aveva sempre un Vangelo a portata di mano!".

Il libretto è un regalo della sorella di Gilberto, con dedica che risale al Natale del 1961, nella quale si legge un augurio per certi versi profetico:

"Qualcuno diceva stamattina - ha commentato don Carlo - che la vita di Gilberto si può riassumere in tre "effe": primo la effe di fedeltà alla chiamata ricevuta dal Signore in gioventù. Gilberto ha risposto con slancio alla chiamata a vivere il celibato apostolico, apparentemente una rinuncia, in realtà un dono di amore e disponibilità, che gli ha permesso di portare luce a centinaia di famiglie lungo tutta la vita.La seconda "effe" è quella della familiarità: Gilberto ha imparato in famiglia e poi vissuto lungo tutta la vita una grande apertura agli altri, che si sentivano voluti bene e guardati con affetto sorridente".

“Non c’era niente intorno a noi, solo deserto, ma san Josemaría ci spingeva a sognare il futuro" .

E' quanto ricordava al termine della celebrazione anche Pierluigi Bartolomei, attuale preside del CFP dell'ELIS, visibilmente commosso: "Non ho mai sentito il Prof. Balducci parlare male di nessuno! E dire che ho lavorato con lui dal 1987...". E questa è la terza "effe" che riassume la vita di Gilberto: "la finezza d'animo, la delicatezza con cui Gilberto trattava sempre le persone che incontrava. Queste tre "effe" portano alla felicità. Qui in terra e in Cielo. Quella felicità contenuta nella dedica del libretto di tanti anni fa...".


Chiamato scherzosamente dal fondatore dell’Opera “Giraffone”, a causa del suo metro e novantasei d’altezza, ecco come Gilberto Balducci raccontava l'incontro con san Josemaría e il suo lavoro all'interno dell'ELIS.

“Ho conosciuto l’Opus Dei nel 1960 a Milano - racconta Balducci - Nel 1963 mi sono trasferito a Roma, per lavorare nel Centro ELIS (Educazione, Lavoro, Istruzione, Sport), un complesso di servizi educativi e sociali destinato alla formazione umana e alla promozione culturale e professionale dei giovani. Ancora oggi continuo a collaborare con questo centro, che si trova nel quartiere Tiburtino”.

“Che cosa sente d’aver imparato, conoscendo e frequentando il fondatore dell’Opus Dei?”

“Ho tanti bellissimi ricordi di Josemaría Escrivá e della sua straordinaria carica di simpatia e umanità. Ogni volta che mi incontrava, scherzava sulla mia altezza e mi diceva: “Scendi giù... ché voglio abbracciarti!”. Il suo messaggio più importante è stato quello della santificazione del lavoro, punto centrale nella spiritualità dell’Opus Dei, che cerchiamo di mettere in pratica all’ELIS. Ricordo che poco prima della nascita di questo centro, durante una riunione, Escrivá disse a noi giovani: “L’ELIS diventerà l’università del lavoro”.

“Che cosa voleva dire?”

“Escrivá già vedeva quello che l’ELIS sarebbe diventato. Noi, in verità, non avevamo le idee chiare. Ma, poi, a poco a poco, tutto andò delineandosi. Abbiamo cercato di concretizzare ciò che voleva il fondatore dell’Opera: un luogo che educasse alla passione per il lavoro tecnico e manuale, all’orgoglio di essere operai, alla bellezza di un lavoro ben fatto, alla voglia di collaborare con i propri colleghi”.

“E’ difficile trasmettere questi ideali ai giovani?”

“Noi chiediamo molto ai nostri allievi. Cerchiamo di abituarli a curare anche i più piccoli particolari del proprio lavoro. I ragazzi apprezzano questa serietà, perché un ambiente in cui si esige è anche garanzia di un più alto livello professionale. Ovviamente, certi valori devono essere vissuti con coerenza anche dagli educatori del centro. In questo modo, è possibile dare il buon esempio ai giovani”.

“C’è qualche episodio che può testimoniare questo spirito?”

“Vent’anni fa, un’azienda promosse un concorso per cercare nuovo personale. Per superarlo, bisognava completare un lavoro di costruzione meccanica, entro un certo tempo. Al termine della prova, il capo-officina si rivolse ad uno dei giovani operai che partecipavano e gli disse: ‘Tu hai studiato all’ELIS?”. E lui rispose: ‘Sì, ma come fa a saperlo?’ L’uomo replicò: ‘Sei l’unico che ha pulito il posto di lavoro, dopo aver finito. Questo lo insegnano solo al centro ELIS’”.

“Quanto c’è, in tutto questo, di Josemaría Escrivá?”

“C’è il grande rispetto che il fondatore dell’Opus Dei aveva nei confronti del lavoro. In ‘Solco’, Escrivá ha scritto: “Il lavoro è la prima vocazione dell’uomo, è una benedizione di Dio, e si sbagliano, purtroppo, quelli che lo considerano un castigo. Il Signore, il migliore dei padri, ha collocato il primo uomo nel Paradiso, perché lavorasse”.

“Tutti i lavori possono essere santificati?”

“Il fondatore dell’Opera invitava a fare bene qualunque tipo di attività, e ad offrirla al Signore. Se qualcuno gli chiedeva quale fosse il lavoro migliore, lui rispondeva che era quello che veniva fatto con più amore di Dio. Ricordo un episodio molto bello, che sintetizza perfettamente questo suo pensiero. Una volta, Escrivá arrivò all’improvviso al centro ELIS e fece visita ad alcune classi. I giovani avevano le mani sporche, perché stavano facendo un’esercitazione. Il fondatore prese le mani di uno dei ragazzi e le baciò dicendo: “Figlio mio, tu puoi offrire questo lavoro a Dio come preghiera, nello stesso modo in cui io offro ogni giorno la Santa Messa”.

“Santificare il lavoro significa anche collaborare con gli altri?”

“Questo è un altro aspetto molto importante. A volte, in certi ambienti di lavoro, il collega viene visto come un nemico, un concorrente pericoloso. Noi, invece, educhiamo i nostri ragazzi ad operare con spirito d’amicizia e collaborazione. Anche questa è una strada per santificarsi. Escrivá diceva: “Quando fate il vostro lavoro ed aiutate un amico, senza che lui lo noti, lo state curando. Siete Cristo che sana”. Lavorare bene non significa chiudersi nel proprio guscio, ma imparare ad essere disponibili ed accorgersi se una persona ha bisogno del nostro aiuto”.

“Ordine, pulizia e puntualità: quanto sono importanti nella santificazione del lavoro?”

“Possono sembrare soltanto dei piccoli particolari, ma sono proprio queste cose che fanno la differenza. Contribuiscono a rendere un lavoro ben fatto. E questo è molto importante. Escrivá, in ‘Solco’, ha scritto: “Non si può santificare un lavoro che umanamente sia uno sgorbio, perché non dobbiamo offrire a Dio cose fatte male”.

“Escrivá, in ‘Forgia’, ha invitato ad essere ‘ribelli’, nel senso positivo del termine, e a non “lasciarsi trascinare dalla corrente”. In questo senso, la santificazione del lavoro si può considerare un’autentica rivoluzione?”

“La proposta di Josemaría Escrivá, se vissuta con coerenza, può davvero cambiare il mondo. La vera rivoluzione non è quella che si fa distruggendo, ma costruendo ogni giorno, a poco a poco, con il nostro sudore. E’ necessario lavorare con serietà e sforzarsi di santificare ogni ambiente che frequentiamo. Non si lavora soltanto per guadagnare lo stipendio, ma anche per incidere in modo positivo nella società. Lasciando traccia del proprio impegno”.