La bellezza dei santi e la mortificazione cristiana

Pablo Marti del Moral è Dottore in Teologia presso la Pontificia Università della Santa Croce. In questo articolo approfondisce il senso della mortificazione cristiana.

Due premesse per capire il senso della mortificazione cristiana

Per affrontare questo argomento, nel quadro più o meno polemico con cui si presenta ai giorni nostri, dobbiamo partire da due premesse. La prima, di importanza essenziale, è tenere presente che il corpo svolge un ruolo centrale e insostituibile per la vita di fede.
Il cristianesimo non è una religione, una filosofia o una concezione spiritualista del mondo. In altre parole, il corpo ha un ruolo fondamentale. Senza il corpo non c’è cristiano; ancor più: non c’è cristianesimo. Dunque, nell’insieme della persona, il corpo ha le sue regole, la sua autonomia e i suoi limiti, con i quali bisogna fare i conti.

La seconda premessa è più circostanziale. Sappiamo che una immagine vale più di molte parole. Se nella nostra retina ci mettiamo a immaginare l’autoflagellazione di una persona, non capiremo niente. Questo non è mortificazione corporale, ma soltanto masochismo. La mortificazione ha un motivo che va oltre se stessa, e oltretutto il motivo deve essere buono; altrimenti non è mortificazione cristiana.

Nel cristianesimo la mortificazione non persegue il dolore per il dolore. In questo senso, per intendere la mortificazione del corpo occorre porla vicino all’immagine di un santo: coincide con il sorriso di Giovanni Paolo II o con la pace di Teresa di Calcutta in mezzo ai più poveri fra i poveri.

Tenuto conto delle due premesse, se vogliamo approfondire la questione, scopriamo che la mortificazione del corpo risponde soprattutto a due motivi: l’auto-controllo o dominio di sé e l’abbellimento della persona.

1. Il corpo manifesta la persona ed è il canale che permette di esprimere i propri sentimenti, la propria libertà e il proprio amore.

La persona è il suo corpo, ma non soltanto il suo corpo. Il mondo interiore di ogni persona non è fatto di tessuti e di liquidi, ma di pensieri, amori e sentimenti. Per questo i greci dicevano che l’uomo è in qualche modo tutte le cose, un microcosmo, un mondo.

Nella persona umana esiste il livello biologico, ma anche quello psicologico e quello spirituale. Benché la persona sia una unità, nella nostra vita osserviamo l’esistenza di forze o tensioni diverse che ci conducono verso obiettivi diversi e che occorre controllare e integrare nell’unità personale. Per esempio, mi piace fumare (il corpo me lo chiede), però so (qui appare l’intelligenza) che non mi conviene o che è proibito e mi possono fare la multa, dopo di che decido se fumare o no e impongo questa decisione al mio modo di agire (qui opera la volontà).

Per controllare e dirigere tutte le forze o tensioni che compaiono nella mia vita, perché s’inseriscano nella mia identità personale in maniera armoniosa, è necessario educare l’intelligenza e fortificare la volontà. A questo punto la mortificazione si dimostra indispensabile.

Per ottenere l’auto-dominio o la padronanza del mio corpo ho bisogno della mortificazione, che si può descrivere come negazione volontaria di un desiderio (mi piace fumare, però non fumo), oppure affermazione volontaria di una cosa che non mi piace (non ho voglia di mangiare la tal cosa perché non mi piace, ma è c’è soltanto questa e me la mangio; non mi piace mettermi a studiare o a lavorare, ma lo faccio; non mi piace alzarmi dal letto, ma mi alzo).

La mortificazione del corpo è un atto libero dovuto a una decisione della volontà, modellata dall’intelligenza (la quale indica il motivo di tale decisione),e che contrasta con le preferenze o i gusti del corpo in una determinata azione.

Ebbene, perché ho bisogno di controllare il mio corpo? O meglio, perché cerco di controllare il mio corpo? I motivi possono essere molto diversi, come per esempio l’educazione o la cortesia umana. Così debbo mortificare il mio corpo per non assumere atteggiamenti che potrebbero disturbare la pace e la convivenza. Tra le molte ragioni che inducono a mortificare o assoggettare il corpo, penso che sia di estrema importanza la richiesta al corpo di un servizio alla persona che vada oltre alle sue possibilità iniziali o ordinarie.

Mi spiego con alcuni esempi. Nel mondo in cui viviamo, soprattutto nelle società avanzate, di solito mortifichiamo il corpo soprattutto in relazione con il lavoro professionale. Sopportiamo il freddo o il caldo (specialmente le persone che lavorano esposte alle intemperie); superiamo la stanchezza e il sonno (quasi universalmente ogni mattina al momento di alzarsi a chi di noi il corpo non chiede di rimanere ancora per un altro po’ a letto, tutti o quasi tutti i giorni?; nei lavori che richiedono di stare a diretto contatto con il pubblico, non posso permettermi di esibire una brutta faccia o di non fare un sorriso, anche quando in realtà il corpo chiede di arrabbiarsi o semplicemente di non badare a nessuno), quanti progetti ci portano ben oltre le nostre forze e richiedono di mortificare il corpo, sempre in periodi determinati o per determinati lavori!

Naturalmente, debbo mortificare il mio corpo anche per compiere altri doveri, specialmente per la famiglia o per gli amici. Praticamente ogni giorno debbo mortificare il mio corpo e le sue preferenze a favore delle richieste di altri: il padre e la madre tra di loro e riguardo ai loro figli piccoli, i fidanzati, gli amici, i vicini di casa. Non siamo soli al mondo, e i rapporti con gli altri assai spesso obbligano a mettere le loro cose davanti alle nostre e, dunque, a mortificare i nostri desideri. In caso contrario, in poco tempo rischieremmo davvero di ritrovarci soli.

Oggi forse la mortificazione corporale più severa viene richiesta a chi pratica una disciplina sportiva. Costoro debbono vivere sfiorando e superando il limite delle possibilità del corpo umano. Perciò hanno bisogno, nella loro vita quotidiana di allenamento, di mortificare il corpo fino alla spossatezza; inoltre debbono seguire una dieta rigorosa, e non possono permettersi eccessi o capricci; e hanno bisogno anche di un orario stabile e regolare che limiti ogni svago. È una cosa volontaria, ma che esige molta mortificazione: si pensi alle discussioni e alle critiche se uno sportivo sia grasso o meno, se i calciatori debbano uscire la sera oppure no. Comunque, il caso dei calciatori è un po’ particolare. Se pensiamo ai ciclisti, ai tennisti, ai nuotatori, agli atleti, agli alpinisti o ai ginnasti non avremo più alcun dubbio che la loro sia una vita dura: nell’allenamento e durante la gara.

Nel caso degli sportivi professionisti a volte giustifichiamo tutto questo impegno con il fatto che essi sono i migliori o che rappresentano l’eccellenza dell’umanità. In questo senso questi personaggi di élite sono i prescelti alla gloria e pertanto si può chiedere loro, e anche esigere, tutto questo assoggettamento o mortificazione del corpo, mentre noi altri stiamo a guardare queste meraviglie dalla nostra poltrona davanti al televisore. Però, secondo il cristianesimo, tutti noi siamo stati scelti per la gloria, e pertanto ogni singola persona è trattata da Dio come il suo figlio migliore, come se fosse l’unico.

Ritorniamo ora all’argomento che vogliamo approfondire. La mortificazione corporale cristiana si può inquadrare in questo significato di esercizio o di allenamento per controllare il corpo, con l’idea di disporlo per il servizio di Dio e degli altri. Nella società in cui viviamo, mortificare il corpo ha senso per controllarne le forze e inserirle in vista dell’esecuzione di un progetto di lavoro, della realizzazione di compiti o doveri in relazione con gli altri, del raggiungimento di alcune mete sportive… Tuttavia, ad alcuni può sembrare strana la mortificazione del corpo per raggiungere un obiettivo spirituale, religioso; la rinuncia a un piacere sensibile o materiale per apprezzare con maggiore facilità un valore spirituale. È strano, ma lo si può spiegare con il materialismo pratico della nostra cultura.

La vita cristiana insegna che l’ideale di amare Dio su tutte le cose e gli altri come se stesso non nasce da solo e ha bisogno del coinvolgimento personale, della lotta e dell’impegno. Proprio a questo punto appare la necessità della mortificazione del corpo per inserirlo completamente nell’intima unità della persona, che così potrà dare il meglio di se stessa.

Non soltanto perché esistono tendenze disordinate che conducono la persona alla propria rovina e che è necessario controllare. Il desiderio di soddisfazione e di piacere, reso disordinato dal peccato, porta a cose che, se le facessimo, ci allontanerebbero dalla pace interiore e dalla comunione con Dio. Per esempio, l’appetito disordinato per il mangiare o il bere, l’invidia, la critica o l’intolleranza verso una persona (parente, amico, vicino di casa o collega), la pigrizia in ordine ai propri doveri, ecc.; ma anche perché l’eccellenza dell’ideale cristiano (amare con tutte le forze e con tutte le opere) comporta una intensa pratica delle virtù (la carità e tutte le altre), e questo non è possibile senza imporsi cose, per così dire, sgradevoli, che ci tolgono comodità e riposo, obbligandoci a impegnarci e a lavorare per gli altri. Per poter fare passi avanti nella vita cristiana bisogna mortificarsi. Come succede in molti aspetti della vita umana (lo sport, il lavoro o l’attività professionale, l’estetica personale…). Cambia la motivazione: l’amore di Dio e delle altre persone.

2. La bellezza che rifugge dall’uniformità e dal livellamento

Ma passiamo al secondo punto. Mi sembra che l’altro motivo fondamentale della mortificazione corporale sia l’ornamento del corpo, o se vogliamo il corpo come ornamento. Precisiamo due cose. Parliamo di ornamento non nel senso di qualcosa di bello ma superfluo, ma come qualcosa di essenziale o trascendentale, vale a dire, come bellezza. D’altra parte, sottolineiamo che la bellezza del corpo esprime ed è parte della bellezza della persona. Ecco perché è sempre una bellezza individuale e singolare, propria di ogni persona, che rifugge dall’uniformità e dal livellamento dei criteri generali.

Orbene, per ottenere la bellezza del corpo o nel corpo occorre anche la mortificazione corporale. Non mettiamo in dubbio che il corpo perfetto si ottenga prendendo molti yogurt, ma eliminando contemporaneamente dalla dieta molte altre cose, eccellenti e saporite, che richiedono attenzione e danno piacere, ma alle quali non si può fare a meno di rispondere con un chiarissimo “no”.

Certe volte la bellezza estetica richiede una mortificazione corporale più specifica. Siamo nel campo delle operazioni chirurgiche, indubbiamente violente e invasive, ma qualche volta dai risultati accettabili: liposuzione, stiramenti facciali, naso, ecc. Abbiamo ancora una volta una mortificazione del corpo, ma per un motivo che va al di là e supera il sacrificio: la bellezza del corpo.

Questo ambito comprende anche tutto ciò che riguarda le esigenze della moda nel campo della scomodità (certi tacchi non sono il meglio né per i piedi né per chi cammina, ma la bellezza giustifica questa mortificazione), il freddo o il caldo; oppure le esigenze della consuetudine (non si può dimenticare il pianto di una bambina piccola quando le praticano un piccolo foro negli orecchi). In questo contesto, forse una menzione speciale merita la decorazione del corpo mediante il piercing, i tatuaggi, ecc.

Per un cristiano adornare il corpo, il corpo come ornamento e manifestazione della persona è di grande importanza. L’ornamento si manifesta nel sorriso, nell’impegno a volte eroico per l’altro (tra gli sposi o tra amici; il padre o la madre per i loro figli), nel condividere la povertà con il povero e la malattia con il malato, ecc. Come si vede è un ornamento della persona, manifestato in modo visibile (ciò che da sempre sono state chiamate opere di misericordia corporali). Ma siccome si tratta di un corpo animato dallo spirito, dall’anima, nell’unità della persona l’ornamento è anche spirituale: l’ornamento di un corpo povero o malato è l’amore solidale per quel corpo, per quella persona.

Soprattutto in questo senso di ornamento e bellezza spirituale del corpo è stata concepita la mortificazione corporale del cristiano. E anche direttamente collegata alla Passione di Cristo. Si tratta di adornare il corpo in corrispondenza con Cristo crocifisso. Il tradizionale impiego nella Chiesa di pratiche di penitenza corporale come il cilicio o le discipline, va unito a questo ornare il corpo spiritualmente con le sofferenze e le piaghe di Cristo, condividendo nel nostro corpo i dolori di Gesù.

Per comprendere questo è necessario cercare di intendere il sacrificio di Cristo. Soltanto così si può avere tolleranza e rispetto verso il cristiano. Per la nostra società, probabilmente è questo l’aspetto della mortificazione corporale che più ci costa comprendere. Forse perché la disciplina o il cilicio vengono visti come un castigo per il corpo.

Cristo subisce una violenza brutale da parte dei soldati e del popolo. L’arresto, gli insulti, la flagellazione, la corona di spine, il percorso della croce e la crocifissione. Però questa descrizione non dà quasi nessuna spiegazione della realtà profonda che in quei momenti sta avvenendo.

La realtà è che Cristo trasforma la violenza brutale dell’umanità nel corso della storia nell’amore assoluto di Dio e degli uomini. Cristo non subisce passivamente la violenza di un condannato a morte, ma è Lui, padrone della propria vita, che la offre, e la offre per amore all’umanità, ai peccatori, agli emarginati, ai poveri. Per questo il Crocifisso adorna: esprime, attraverso il suo corpo mortificato, la corona dell’amore disinteressato e totale per Dio e per gli altri.

Cristo soffre perché vuole soffrire, e lo vuole perché con la sua sofferenza si unisce a ogni persona che soffre, sta con lei, la sostiene, le dà speranza. Non si può chiedere al cristiano di rinunciare alla croce (“il segno del cristiano è la santa croce”), né di rinunciare al crocifisso.

La sofferenza del cristiano, e al suo interno la mortificazione corporale, è la manifestazione di una realtà più profonda: la sua solidarietà e la sua vicinanza con la sofferenza di tutti gli uomini e di ogni uomo nel corso della storia e della sua vita. Non è un castigo per il corpo, come se fosse cattivo o disprezzabile, ma tutto il contrario. È un ornamento del corpo che rende più bella la persona, in quanto esprime nella propria carne l’amore solidale e l’unione con Cristo e con l’umanità sofferente, bisognosa, emarginata, dimenticata.

Non è obbligatorio avere un corpo perfetto, né essere alla moda ancorché scomoda, né portare un piercing o farsi tatuare, come del resto non è obbligatorio utilizzare la mortificazione corporale del cilicio o delle discipline.

D’altra parte, questi non sono gli unici mezzi per adornare il corpo; sono invece i mezzi, utilizzati da molti oggi come ieri, che ne hanno provato l’efficacia per raggiungere una particolare bellezza. Su questo abbiamo soprattutto l’esempio di Cristo e di tanti martiri. E anche l’esempio della vita e dell’opera di tanti santi. Non è facile dedicare la vita a Dio e agli altri, prima e al di sopra di quel che può far piacere al proprio io: prendersi cura e vivere tra i più poveri fra i poveri non soltanto un giorno, ma un giorno dopo l’altro per l’intera vita.

Perché stigmatizzare qualcuno o giudicare a priori, con un certo grado di intolleranza? Sarà meglio cercare di comprendere le ragioni che ognuno può avere per vivere e comportarsi in quel modo. Tutti insieme edificheremo una civiltà e un mondo migliore se ognuno cercherà di essere personalmente migliore.

Pablo Marti del Moral

Dottore in Teologia presso la Pontificia Università della Santa Croce