Il mistero della beatitudine del dolore

Come è possibile che gli afflitti siano beati? Qual è il senso cristiano del dolore? Una riflessione sulla sofferenza attraverso lo studio di alcuni autori di spiritualità cristiana fatta da una madre di famiglia a partire dalla sua esperienza come catechista.

“Beati gli afflitti, perché saranno consolati” (Mt 5,4, traduzione CEI 1974). Ho sempre pensato che questa beatitudine in realtà racchiudesse tutte le altre. È il paradosso per eccellenza, che considera l’afflitto come beato.

Prima di entrare nel periodo surreale del coronavirus, insieme ai bambini della classe in cui faccio la catechista stavamo iniziando ad affrontare il discorso della Montagna. Ricorderò sempre l’esclamazione di una vivacissima bimba, che mi guardava negli occhi con un pochino di amarezza, e candidamente mi diceva: “uno che soffre è beato? Dai, non si può dire, non si può...”

Sì, piccola, viene da pensare che solo Dio possa dire una cosa del genere. Viene da pensare che nessun altro possa. E in effetti, quando succede, quando sentiamo qualcuno che osa parlare del dolore in modo diverso, come luogo di beatitudine, di felicità, la nostra reazione immediata è spesso riassumibile in un sconcertato disincanto.

non esiste nessuno che possa negare che la vita sia una misteriosa commistione di gioia e dolore

L’autore del libro “La via della felicità” lo dice chiaramente: “Siamo franchi: fra tutte le beatitudini non ve ne è una che contraddica a tal punto il senso comune; nessuno crede che la felicità appartenga a coloro che piangono e sono nel dolore. Noi tutti associamo spontaneamente la gioia, il riso e i piaceri della vita all’idea di felicità; (…) sospettiamo di depravazione coloro che si compiacciono al pensiero della sofferenza e della morte (…). Che ci fa dunque questa beatitudine del dolore e delle lacrime?”[1]

Peraltro non esiste nessuno che possa negare che la vita sia una misteriosa commistione di gioia e dolore. A volte camminano a braccetto, altre volte si alternano.

Il dolore è una costante, a volte si assopisce, a volte ritorna. Si può distinguere tra sofferenza fisica e morale.

A me piace mettere insieme entrambe le sofferenze, e azzardare una categoria diversa, che è quella del dolore visibile e non visibile.

Solo uno sguardo superficiale ci può portare a pensare esclusivamente al dolore visibile. A volte è il più plateale, il più eclatante: il dolore fisico determinato da una malattia, ma anche da un lutto o da un’ingiustizia.

Solo uno sguardo superficiale ci può portare a pensare esclusivamente al dolore visibile

Esiste anche il dolore nascosto, interiore. Il dolore invisibile, che ha una caratteristica essenziale, che lo contraddistingue, che lo rende unico. È la non comprensione da parte del prossimo. Il dolore invisibile è di per sé stesso non capito, il più delle volte. È un dolore che fa molto male, anche se non sempre la sua causa è riconducibile al comportamento altrui.

Quando le persone più care e più vicine non comprendono il dolore che proviamo, la conseguenza è la solitudine. San Josemaría dà per certo che solo Dio possa capire un certo tipo di intenso dolore che porta un uomo a piangere.

“Piangi? Non vergognartene. Piangi: sì, anche gli uomini piangono, come te, nella solitudine davanti a Dio: di notte, dice il Re David, irrorerò di lacrime il mio letto (…)”[2].

Quando le persone più care e più vicine non comprendono il dolore che proviamo, la conseguenza è la solitudine

Visibile o meno, nascosto o in vista, il dolore è universale: tutti ne fanno esperienza. E qui sta il nocciolo che conferisce a questa Beatitudine l’aspetto più potente: raggiunge in modo travolgente l’anima dei più lontani e dei più vicini.

Pinckaers dice: “Saper parlare agli uomini, così duri d’orecchio, quando non vogliono ascoltare - come Gesù stesso ha avuto modo di constatare - è cosa che solamente la sofferenza poteva realizzare. Nessun uomo può restare indifferente verso di essa. (…)”.

Solo Dio può parlare così: un Dio incarnato che si è fatto uomo, e che ha mostrato di voler comprendere e vivere la natura umana fino in fondo, tranne che nel peccato.

Tutto cambia, quando si conferisce un senso. Ma non può esserci un senso a buon mercato, non esiste una ricetta magica che elimini il dolore stesso. Esiste Cristo, che lo capisce e lo conosce in tutte le sue sfaccettature.

Esiste Cristo, che vive il dolore di ogni uomo, con ogni uomo. Lo fa perché capisce, essendo arrivato a patire fino all’estremo di sofferenza fisica e interiore. Sa cosa sia il baratro della disperazione, perché ci si è affacciato; sa cosa significhi sentirsi soli e abbandonati. Ha subito persecuzione, dolore fisico allo stremo, ha subito il dolore “non capito”. Sa cosa sia la solitudine.

La solitudine di Gesù nel Getsemani, che solo la presenza di uno spirito ha potuto confortare: un angelo mandato dal Padre (cfr. Lc 22,43). Nessun discepolo ha retto quel tipo di dolore.

La solitudine di Gesù in Croce, poi, che lo porta a urlare… “perché mi hai abbandonato? ” riprendendo il Salmo, stupisce profondamente. Dove è Dio? Dio cerca Dio?

Joseph Ratzinger in Introduzione al Cristianesimo afferma che “nel grido di Gesù sulla Croce abbiamo colto il nucleo centrale di ciò che significa la discesa di Gesù agli inferi (…), la sua partecipazione al destino di morte dell’uomo. In questa ultima preghiera di Gesù, come del resto anche nella scena dell’orto degli ulivi, il nucleo profondo della sua passione non sembra essere qualche dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono. Ora qui viene alla luce, in definitiva, semplicemente l’abissale solitudine dell’uomo: dell’uomo che nel suo intimo è solo. Questa solitudine (…) denota al contempo la più stridente contraddizione con la natura dell’uomo, che non può vivere da solo, ma ha bisogno di essere con gli altri. La solitudine è la regione dell’angoscia (…).”[3]

Ma la solitudine può essere attraversata dall’Amore, dalla presenza di qualcuno che ci ama. La solitudine che non può essere penetrata da niente, neanche dall’amore, è l’inferno.

Qui troviamo il senso della beatitudine, del fatto dell’amore compreso. C’è Qualcuno che per amore ci tende la mano, e non ci lascia soli. Cristo quindi “ha varcato la soglia della nostra ultima solitudine, calandosi con la sua passione nell’abisso del nostro estremo abbandono. Là, dove nessuna voce è in grado di raggiungerci, egli è presente”.

Perché ha capito. Perché sa. Lui sa. Capisce e comprende, e piange.

Riprendendo allora il punto di Cammino 216, si capisce allora cosa voglia dire dare un senso soprannaturale al dolore, purificare il nostro passato, e riempire di una Presenza il nostro doloroso presente.

Dice Nouwen in “Muta il mio dolore in danza”: “Il dolore patito da soli è assai diverso da quello sopportato avendo al fianco qualcun altro. Anche se il dolore è sempre dolore, sappiamo tutti quanto grande sia la differenza se un altro ci sta accanto, se un altro lo condivide con noi. (…) Non c’è sofferenza umana che non sia in qualche modo condivisa da Dio. Questo è il grande e meraviglioso mistero del Dio fattosi carne per vivere in mezzo a noi. Dio partecipa, cioè letteralmente prende parte alla nostra afflizione, alla nostra tribolazione, al nostro lutto, e ci invita a imparare a danzare”.[4]

Il dolore è sempre dolore, ma il senso della Beatitudine sta nel fatto che succede di sorridere nel pianto. Succede di appoggiare la testa sulla spalla di Chi ci fa una carezza e asciuga nel segreto della nostra stanza le nostre lacrime. Già qui, ora, sulla Terra. E “la tenerezza è l’unica strada che permette al dolore di trasformarsi in amore”[5].

Poi, in Cielo, come leggiamo nel libro dell’Apocalisse (21, 4-6): “Egli asciugherà tutte le lacrime dai loro occhi e non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né dolore, perché tutte le cose di prima sono scomparse”.

Don Tonino Bello diceva: “Un giorno, quando avrete finito di percorrere la mulattiera del Calvario e avrete sperimentato come Cristo l’agonia del patibolo, si squarceranno da cima a fondo i veli che avvolgono il tempio della storia, e finalmente saprete che la vostra vita non è stata inutile. Che il vostro dolore ha alimentato l’economia sommersa della grazia. Che il vostro martirio non è stato assurdo, ma ha ingrossato il fiume della redenzione raggiungendo i più remoti angoli della terra”.

Come molti santi don Tonino (in via di canonizzazione) arriva ad attribuire un senso redentivo al dolore, come anche santa Teresina di Lisieux, che profondamente e devotamente offriva ogni suo patimento per la salvezza delle anime, con lo stesso abbandono che aveva San Josemaría, e non solo lui, ma tutti i santi: Signore fai tu, pensaci tu.

Maddalena Fabbri


[1] Pinckaers Servais, La via della felicità. Alla riscoperta del Discorso della Montagna, Edizioni Ares, pag. 87.

[2] San Josemaría Escrivá, Cammino, punto 216.

[3]Joseph Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Queriniana, pag. 287 e ss.

[4]Nouwen, Muta il mio dolore in danza. Vivere con speranza i tempi della prova, San Paolo Edizioni, pag 100.

[5] Andrea Mardegan, Giuseppe e Maria. La nostra storia d’amore, Paoline pag. 74