Il cuore di una madre lo comprende soltanto un’altra Madre

Il 27 settembre 2014, ci siamo imbattuti in una singolare coppia che ci sembrava provenire da un paese remoto, forse l’Europa orientale o il sud-est asiatico; e invece, venivano da molto vicino, da Valencia. Ci hanno offerto una testimonianza emozionante, che abbiamo pubblicato con il titolo I ragazzi del coro. Oggi, la loro figlia Marina ci racconta come è finita la storia di Luis, di Kika e dell’intera famiglia. O meglio, come continua, perché le belle storie non finiscono mai.

Sono la terza figlia di una famiglia numerosa di tredici fratelli. I miei genitori sono stati sempre profondamente cristiani; mio padre è simile al santo Giobbe – e un po’ a Babbo Natale – e mia madre somiglia a Giuditta per la bellezza e il carattere.

Kika e Martina, madre e figlia.

Lei è sempre stata profonda in argomenti e sentimenti, ribelle e intrepida in una società agiata. Ma soprattutto è stata per definizione “una madre”. Ci ha educati senza programmi e senza ricette, con la naturalezza di una famiglia, festeggiando tutto quello che c’era da festeggiare, ed essendo molto presente in casa. Leggeva molto, parlava e si divertiva con noi, e ogni tanto ci rimproverava – aveva 113 motivi –. Tutti noi ci ricordiamo di quando scagliò una torta in faccia a mio padre e, vedendo la sua espressione di sbigottimento, ruotò la mano e la torta si spiaccicò sul soffitto. Mentre la recuperavamo, si mise imbarazzata a ridere e, dopo avere recuperato la torta, ce la siamo mangiata felici.

Mia madre ci ha educati senza programmi e senza ricette, con la naturalezza di una famiglia, festeggiando tutto quello che c’era da festeggiare, ed essendo molto presente in casa

Malgrado le inevitabili frizioni, ci siamo sempre considerati una famiglia molto unita e privilegiata per i tanti doni ricevuti da Dio nel corso degli anni: il più grande, il dono della fede, che abbiamo potuto confermare insieme a Giovanni Paolo II nella messa del primo Incontro delle Famiglie del 1994. L’altro dono è sapere come godersi la vita. Ci piacciono le relazioni umane, le riunioni con i parenti e gli amici… Avere l’opportunità di vivere è una meraviglia che abbiamo sempre apprezzato.

I progetti di Dio non sono i nostri

Quando avevo 19 anni sono andata al Santuario di Torreciudad con alcuni amici. Lì mia sorella Paola, che è soprannumeraria, mi ha presentata una ragazza dell’Opus Dei e, da quel momento, ho cominciato a frequentare alcune attività. Ho sempre pensato che la mia vita sarebbe stata simile a quella dei miei genitori, per la grande ammirazione che avevo per loro e per la mia inclinazione naturale al matrimonio e alla maternità. Tuttavia, i progetti di Dio non sono i nostri progetti e, dopo anni di ricerca, quando ero alla fine del corso di Architettura Tecnica, ho scoperto che Dio mi chiedeva una vita di donazione a Lui e agli altri, come numeraria dell’Opus Dei. Poco prima mio fratello Arturo aveva preso la stessa decisione di rispondere alla chiamata di Dio.

Quando l’ho detto a mia madre, la sua reazione è stata assolutamente inaspettata. Non credeva che io avessi una vera vocazione: montò letteralmente su tutte le furie e mi disse che, se volevo abbracciare quella vita, mi avrebbe cacciata da casa, e così fece. Subito dopo, parlò con mio fratello Arturo e gli disse di fare le valigie e di andarsene anche lui. Sia noi che il resto della famiglia eravamo quanto mai sconcertati per quel che era successo, ma il cuore di una madre lo comprende soltanto un’altra madre.

Anche mio padre reagì male all’inizio, ma dopo aver ascoltato la mia storia, mi disse: “La tua scelta viene da Dio, e quando tua madre lo sentirà, si convincerà certamente”; ma mia madre non aveva le forze per ascoltare

Anche mio padre reagì male all’inizio, ma dopo aver ascoltato la mia storia, mi disse: “La tua scelta viene da Dio, e quando tua madre lo sentirà, si convincerà certamente”; ma mia madre non aveva le forze per ascoltare. Mio padre l’ha sempre appoggiata, sono stati un solo cuore e una sola testa, e questo è stato un esempio per tutti noi. Si può dire che hanno adempiuto alla lettera la promessa fatta al momento di sposarsi: “Ti amerò nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, nella ricchezza e nella povertà... tutti i giorni della mia vita”.

Due settimane dopo siamo ritornati a casa, ma la nostra famiglia non fu mai più la stessa. I rapporti con mia madre cambiarono parecchio: discutevamo abitualmente e c’era una incomprensione reciproca. Io soffrivo pensando che ciò che Dio mi chiedeva poteva separare mia madre e i miei fratelli da Lui e dalla Chiesa. Spesso sentivo nel mio cuore come se il Signore mi dicesse: “Abbi fiducia, tu prenditi cura delle mie cose e io mi prenderò cura delle tue”. Tra le “mie cose” c’era la nostra famiglia.

Passarono gli anni e mia madre continuava a non accettare la nostra vocazione, anche se i rapporti si andarono ammorbidendo. La nascita di mia nipote Marina ci avvicinò un po’ di più

Passarono gli anni e mia madre continuava a non accettare la nostra vocazione, anche se i rapporti si andarono ammorbidendo. La nascita di mia nipote Marina ci avvicinò un po’ di più. I miei genitori continuavano a non mettere piede nei Centri in cui vivevamo e a non saper nulla della nostra vita nell’Opus Dei. Continuavano ad amarci e contavano su di noi. Avevamo preso l’abitudine di andare spesso nella casa paterna, ma non tanto come loro avrebbero voluto; e ce lo facevano notare. Arturo scherzava con mio padre e gli diceva che non aveva il “dono della bilocazione”, ma che avrebbe voluto stare sempre nelle sue due case. Una vigilia di Natale mio padre gli regalò un anello della bilocazione – di carta –, ma naturalmente non funzionò. Io ero in condizioni peggiori, perché non riuscivo a scherzare con mia madre. Dato che il tempo mette ogni cosa al suo posto, mia madre finì con l’ammettere che la nostra era vera vocazione e non il frutto di una “infatuazione” e si affidava a noi facendoci pregare per diverse intenzioni, che quasi sempre riguardavano i miei fratelli e altri parenti.

Un’immane crisi familiare

L’armonia familiare sembrava ristabilita, ma quando ormai erano passati quattordici anni dal primo “terremoto”, mia sorella Paz decise di darsi a Dio come consacrata del Regnum Christi. Si diede al Signore il giorno del mio compleanno, il 27 agosto 2012, e la coincidenza appare come un chiaro segno che la sua risposta è conseguenza della mia. Ci domandavamo come avrebbero reagito i nostri genitori; pensavamo che forse l’avrebbero presa bene, ma questa volte l’effimero equilibrio si ruppe, scatenando una crisi profondissima. Dopo anni di sofferenza morale, stanca di essere “la cattiva del film”, mia madre crollò. Il giorno in cui glielo disse, anche Paz si vide “buttata fuori casa”.

In gennaio decise di andare a vivere nell’appartamento che abbiamo al mare e disse a mio padre che “aveva deciso di separarsi da lui”

Ci costava comprendere la sua non-accettazione, ma mia madre era la prima a non accettarla. Vista la nuova situazione e l’incapacità di accettarla, mia madre sprofondò in una depressione tremenda che la indusse a rifiutare ciò che più amava. In gennaio decise di andare a vivere nell’appartamento che abbiamo al mare e disse a mio padre che “aveva deciso di separarsi da lui”. In un primo momento non ci abbiamo creduto, perché sembrava la tipica minaccia che poi passa da lì a poco; però passavano i giorni, le settimane e i mesi e lei continuava a non volere saperne niente di mio padre. Era stanca di prendere le decisioni importanti della famiglia, di lottare per ognuno di noi e non voleva più soffrire. Così adottò il detto: “occhio non vede, cuore non duole”.

Non sapendo che cosa fare, decidemmo di chiedere con forza alla Madonna di restituirci nostra madre. Un giorno mio padre, Paz e io abbiamo deciso di andare in un santuario mariano. In quei giorni la rinuncia di Benedetto XVI, l’elezione di Papa Francesco e altre circostanze l’avevano commossa. D’altra parte, quell’anno mio fratello era stato designato “clavario”, cioè massimo rappresentante della nostra Confraternita del Sangue e Cristo di San Marcello, della omonima chiesa situata a Segorbe (provincia di Valencia); così mia madre si trasferì a Segorbe con tutta la famiglia, pur continuando a tenere le distanze da mio padre.

La Madonna di Torreciudad cambia i cuori

Ho parlato con mia madre e le ho proposto di andare a Torreciudad dopo la Settimana Santa, approfittando del fatto che Arturo vi si trovava per una attività con i giovani e io dovevo passare alcuni giorni di riposo e di formazione a La Solana, un centro di ritiri spirituali situato a Torreciudad. Con mia sorpresa, accettò. Mia madre continuava ad avere un cuore di pietra, ma voleva cambiare.

Il primo giorno l’ho invitata a mangiare e a chiacchierare con noi dopo pranzo a La Solana. Il personale preparò la paella valenziana e tutte sono state molto affettuose con lei. Alla fine era felice, commossa per le attenzioni ricevute e per tutto il resto. Quando ho capito che avrebbe accettato la proposta, sono andata a parlare con don Javier Mora-Figueroa, allora rettore del Santuario, e gli ho spiegato la situazione: “Deve parlare con mia madre, deve farlo lei”. Ma egli, con il migliore dei suoi sorrisi, replicò: “No, deve farlo la Madonna; tu prega, chiedilo a Lei”.

“Deve parlare con mia madre, deve farlo lei”. Ma egli, con il migliore dei suoi sorrisi, replicò: “No, deve farlo la Madonna; tu prega, chiedilo a Lei”

In quei giorni andavamo spesso in gita con mia madre, oppure visitavamo i vari punti del santuario. Un pomeriggio abbiamo deciso di partecipare alla recita del rosario e alla benedizione con il Santissimo. Subito dopo mi sono rivolta a mia madre, che appariva molto seria, e le ho detto: “Mamma, ho detto al rettore che tu sei qui: ti piacerebbe parlare con lui?”. Subito rispose: “Sì, subito”. Dopo mi raccontò il colloquio avuto con lui; gli aveva detto esattamente questo: “Riconosco di aver fatto tanti errori nella mia vita... Ma non voglio cambiare, non voglio ritornare con mio marito, sicché non potrei confessarmi”. Il sacerdote le disse: “Non ti preoccupare; il proposito del cambiamento te lo darà Dio”. E così fu: rimasero d’accordo che il giorno dopo si sarebbero rivisti per ripulire l’anima. Quel giorno mia madre fu di nuovo mia madre ed era felice.

Nei giorni successivi sia il rettore che il vice-rettore si dedicarono a noi. Mi impressionarono i loro modi delicati e affettuosi, la squisitezza della loro comprensione e della loro misericordia. Una delle virtù delle persone che accolgono i pellegrini a Torreciudad è la capacità di occuparsi di te come se fossi l’unica persona al mondo. Durante una visita guidata il vice-rettore ci mostrò la cappella della Sacra Famiglia. Ci disse che lì si celebravano molti anniversari di nozze. Allora mia madre disse che il prossimo 12 ottobre avrebbero compiuto quaranta anni di matrimonio, e che sarebbe stato molto bello celebrarlo tutti insieme. A questo punto il vice-rettore, ridendo, disse che sì, che aspettare i cinquanta sarebbe stato rischioso; prima di tutto, perché bisognava vedere se ci sarebbe arrivata, e poi perché bisognava vedere come ci sarebbe arrivata. Una settimana dopo mia madre ritornò a Valencia con Arturo, contenta di ritornare a casa. Insicura di se stessa, ma sicura di Dio.

Una settimana dopo mia madre ritornò a Valencia con Arturo, contenta di ritornare a casa. Insicura di se stessa, ma sicura di Dio

Una telefonata urgente

Il 24 settembre 2013 mio padre mi ha telefonato, allarmato, dicendomi che la mamma era stata ricoverata in ospedale perché improvvisamente aveva accusato seri problemi nel parlare. Sono andata di corsa e quando sono arrivata la dottoressa ci ha detto che aveva un tumore cerebrale. Abbiamo deciso di dirglielo subito, sia perché lei ha sempre voluto sapere la verità e anche perché è bravissima a scoprire una qualunque simulazione o menzogna. Sicché, con l’anima a pezzi, ci siamo uniti alla dottoressa. Nella camera c’era mia madre, Paola, mio padre e io. Appresa la notizia, mia madre guardò la dottoressa e le disse: “Bene, di qualcosa si dovrà pure morire; alcuni vanno via prima, altri dopo”. A quel punto siamo scoppiati a piangere, mentre mia madre ci diceva: “Non fate drammi e andate a mangiare”.

Nella camera c’era mia madre, Paola, mio padre e io. Appresa la notizia, mia madre guardò la dottoressa e le disse: “Bene, di qualcosa si dovrà pure morire; alcuni vanno via prima, altri dopo”

Nel bar mio padre, tra le lacrime e con una risatina nervosa, mi disse che era trasecolato per la fortezza di mia madre e pensava che le cose si sarebbero dovute svolgere del tutto al contrario: la dottoressa prima avrebbe dovuto dare la notizia a lei e poi avrebbe dovuto domandarle: “Bene, signora, quando ritiene che sia il momento migliore per comunicarlo a suo marito e ai figli?”. In realtà, infatti, la notizia su di noi ebbe l’effetto di una bomba: mia madre era giovane e noi avevamo ancora molto bisogno di lei.

Quella sera sono rimasta in ospedale con lei. A un certo punto, con un’espressione preoccupata, mi disse: “Chissà che bastonate mi darà Dio appena arriverò all’altra vita, perché per tanti anni mi sono opposta alla sua volontà...”. Le ho risposto: “Vedi mamma, Papa Francesco sta parlando di misericordia. Dio si farà una grande risata quando arriverai in Cielo e ti farà un abbraccio molto grande”. Tentò di sorridere, ma ho capito che non era tranquilla. Mi sono addormentata nella poltrona dell’ospedale dopo aver chiesto al Signore di darle la pace che le mancava. Il giorno dopo le ho detto: “Questo pomeriggio ti porterò delle ciambelline. Vuoi altro?”. Rispose: “Sì, portami un prete”. Durante il suo ricovero in ospedale abbiamo parlato molto di Dio, della vita eterna, della preghiera… Intanto, chiedevo al Signore che “ le infiammasse il cuore come a Santa Teresa di Gesù”.

“Pensato e fatto”

Dopo mille esami, i medici hanno deciso di operarla il 14 ottobre. Abbiamo telefonato al vice-rettore di Torreciudad per dire che non avremmo potuto celebrare lì l’anniversario dei miei genitori. Mia madre era dispiaciuta di non poter andare. L’11 ottobre , alle tre del mattino, pregava: “Però, Signore, col tumore avresti potuto aspettare qualche altro giorno, così saremmo potuti andare a Torreciudad tutta la famiglia”. E sentì che il Signore le rispondeva: “Chi ti impedisce di andare?”. Allora pensò: “È vero! Nessuno ci impedisce di andare!”. Poi lo disse a mio padre. Alle 8 del mattino eravamo tutti d’accordo. Chiese il permesso all’ospedale e così, nel più puro stile valenziano – pensat y fet, detto e fatto –, il giorno dopo siamo partiti in trentasei in pullman, andata e ritorno in giornata.

L’11 ottobre , alle tre del mattino, pregava: “Però, Signore, col tumore avresti potuto aspettare qualche altro giorno, così saremmo potuti andare a Torreciudad tutta la famiglia”. E sentì che il Signore le rispondeva: “Chi ti impedisce di andare?”

Per me, quella è stata una giornata agrodolce. Molto dolce per la meraviglia di andare tutti quanti a Torreciudad. Era la risposta del Signore: “Io ho disfatto, io ho aggiustato”; ma un po’ anche agro perché pensavo che poteva essere l’ultimo viaggio insieme della nostra famiglia. L’operazione, infatti, presentava un’alta percentuale di rischio e mia madre era preparata ad affrontare il passaggio in Cielo. San Josemaría affermava che Dio non è un cacciatore che si nasconde per far fuori la preda nel momento più inaspettato, ma è un giardiniere che taglia la rosa nel momento più bello: così io vedevo mia madre, come un bel fiore che sta per essere tagliato. La Madonna sparse la sua grazia su ciascuno di noi. I miei genitori si vollero confessare nuovamente prima della cerimonia e qualcuno dei miei fratelli fece un passo decisivo verso la conversione. Non potevamo far altro che rendere grazie a Dio per la famiglia che ci aveva dato.

“Voglio dare testimonianza”

Il 14 ottobre l’operazione andò molto bene. Hanno potuto estirpare il tumore in modo pulito, senza danneggiare il cervello. Nel pomeriggio abbiamo potuto vedere mia madre in terapia intensiva. Ad Arturo e a me è toccato per ultimi. Appena entrati nel box ci ha detto, raggiante nel volto: “Oggi è stato il giorno più felice della mia vita”. Le abbiamo domandato se aveva avuto paura durante l’operazione e ci ha risposto di no.

Alcuni giorni dopo sono andata a dormire in ospedale con lei e ho avuto l’ardire di interrogarla su quello che aveva provato durante l’operazione. Mi ha detto: “Non lo so esattamente; so solamente che Dio mi ha dato una specie di dono, e non voglio perderlo. Non capisco perché mi si è dato fino a questo punto, a me che sono stata tanto lontana, a me che tante volte mi sono opposta alla sua volontà, a me che l’anno passato volevo abbandonare tutto”. Le ho detto che certamente era un mistero, ma che lei aveva sempre cercato di vivere rettamente e questo Dio lo vedeva Si sentiva come Disma, il buon ladrone, che all’ultimo momento aveva strappato a Cristo il Paradiso. Poi le ho domandato: “Mamma, ora comprendi la nostra vocazione?”. Senza quasi lasciarmi finire, mi disse: “Non solo la comprendo, ma comprendo che è la cosa migliore che vi poteva capitare”.

Poi le ho domandato: “Mamma, ora comprendi la nostra vocazione?”. Senza quasi lasciarmi finire, mi disse: “Non solo la comprendo, ma comprendo che è la cosa migliore che vi poteva capitare”

In seguito, parlando con una sorella, questa mi ha raccontato che quando è rientrata in camera dopo l’operazione ha detto a vari fratelli: “Voglio che sappiate una cosa: ho passato tutta la vita confidando molto in Dio, ma fino a un certo punto. E quel punto era la mia superbia, e quel punto mi impediva di unirmi a Dio e di comprendere le sue cose”. In quei giorni ha avuto anche molte parole di riconciliazione, di tenerezza e di comprensione per mia sorella Paz.

Alcuni giorni dopo ci ha detto che voleva dare testimonianza di madre vissuta accecata dalla vocazione dei figli, di madre che si è sbagliata. Ciò nonostante mia madre non si è sbagliata, perché ci ha saputo educare e ci ha insegnato a essere generosi, e quindi è una realtà che noi dobbiamo il novanta per cento della nostra vocazione ai nostri genitori – come diceva san Josemaría –; io direi che nel nostro caso si arriva al 99%.

Dopo aver analizzato il tumore, ci hanno dato la cattiva notizia: le rimanevano tra sei mesi e un anno di vita. Sono stati mesi di terapia: radioterapia, chemioterapia… e di vita regalata perché ormai sono passati due anni. Ha potuto partecipare ad avvenimenti importanti: nozze, battesimi, un pellegrinaggio in Terra Santa, una visita alla Madonna di Fatima, un’altra a Torreciudad. E non soltanto questo: ogni giorno ci ha portato cose nuove, ha avuto tempo per chiedere perdono, per rendere grazie, per parlare con ognuno, per chiederci di essere non buoni ma santi.

Nel settembre del 2014 i miei genitori sono andati a Madrid alla Beatificazione di Álvaro del Portillo. Sono stati giorni indimenticabili, e anche colmi di molta grazia di Dio e di ringraziamenti da parte nostra. Là, il giorno della Messa di ringraziamento, “per caso” hanno potuto dire alcune commoventi parole di ringraziamento che sono apparse poi nella pagina web dell’Opera, in un servizio intitolato Los chicos del coro, i ragazzi del coro.

La storia della conversione di mia madre è stata la storia della conversione di mio padre e di ognuno di noi figli. Lei diceva che doveva andarsene in Cielo per prepararci la casa e renderla accogliente. È morta il 24 febbraio 2016, circondata dai figli e dai nipoti, con una grande serenità e una gran gioia. Sarà lei ad adoperarsi da lassù per ottenere che tutti noi la raggiungiamo, vicino alla famiglia di Nazaret, vicino alla Trinità Beatissima. Là in Cielo non vi sarà né pianto, né dolore, né chemio, né incomprensioni... Sarà solamente una grande comunione di amore, dove spero di incontrare tutti voi che avete letto questo racconto.