Contro il vento e la mareggiata: san Josemaría a Roma

Pilar Urbano, giornalista e scrittrice, racconta in "Josemaría Escrivá, Romano", l'arrivo a Roma di San Josemaría per la prima volta dopo la traversata da Barcellona a Genova, in una nave scassata e sferzata dalla tempesta.

Pilar Urbano, giornalista e scrittrice, racconta in Josemaría Escrivá, Romano, l'arrivo a Roma di San Josemaría per la prima volta dopo la traversata da Barcellona a Genova, in una nave scassata e sferzata dalla tempesta.

Il Fondatore dell'Opus Dei arriva in Italia a bordo del J.J. Sister

Con i gomiti sul vecchio parapetto del J. J. Sister, a babordo, il sacerdote Josemaría Escrivá de Balaguer e il giovanissimo ordinario di Storia del diritto, José Orlandis, membro dell'Opus Dei, respirano a pieni polmoni una boccata d'aria di mare. Si guardano e sorridono. Accanto a loro un passeggero commenta: «La quiete dopo la tempesta». L'espressione, questa volta, calza a pennello. Per venti ore hanno corso un serio pericolo di naufragio, con il piccolo vapore postale scosso da una violenta tramontana che soffiava dal Golfo del Leone. Il J. J. Sister, coerente con la sua fama di ballerino e danzatore, ha fatto onore alla sua bandiera contro il vento e la mareggiata, anche se il vasellame e la cristalleria della sala da pranzo sono andati in frantumi, le onde hanno spazzato la coperta, i mobili della cabina sono stati sbattuti da una parete all'altra… Tutti i passeggeri e l'equipaggio, dal capitano all'ultimo marinaio, hanno sofferto pesantemente il mal di mare. In piena sarabanda del temporale Josemaría Escrivá, di buon umore, ha sussurrato a José Orlandis:

«Sai che ti dico? Che se andiamo a fondo e ci mangiano i pesci… il nostro amico Perico Casciaro non assaggerà mai più un nasello in vita sua!» (1)

Sono le cinque del pomeriggio di una calda giornata di giugno: sabato 22 giugno 1946. Il sole batte ancora forte, ma la brezza d'alto mare rende gradevole lo stare sopra coperta. il J. J. Sister naviga con rotta ovest-est, da Barcellona a Genova.

Tre anni prima, un altro giovane dell'Opus Dei, Álvaro del Portillo, percorreva la medesima rotta, ma in aereo e in piena guerra. Del Portillo non si turbò: «Ero sicurissimo che non sarebbe successo niente: avevo con me tutte le carte…» (2) Sì, certo: aveva con sé tutte le carte, tutti i documenti che doveva presentare alla Santa Sede per ottenere il nihil obstat, il via libera per l'erezione diocesana dell'Opera. Fino a quel momento, infatti, l'Opus Dei poteva contare solo su un'approvazione molto precaria: una specie di salvacondotto concesso da monsignor Eijo y Garay, vescovo di Madrid-Alcalalí, che le consentiva di muoversi entro i limiti di una «Pia unione». Una cosa manifestamente insufficiente per la dimensione universale che la natura dell'Opera esigeva.

«L'opera» scriverà in seguito Josemaría Escrivá «appariva al mondo e alla Chiesa una novità. La soluzione giuridica che cercava, sembrava impossibile. Ma, figlie e i miei, io non potevo aspettare che le cose diventassero possibili. "Siete arrivati con un secolo di anticipo" disse un'alta carica della curia romana. Ciò nonostante, bisognava tentare l'impossibile. Mi facevano fretta le migliaia di anime e si davano da Dio nella sua Opera, con la pienezza della nostra dedizione, per fare apostolato in mezzo al mondo.» (3)

Il Portone di bronzo restava chiuso non perché chi bussava fosse arrivato tardi, ma perché era arrivato troppo presto. Ma le opere di Dio non possono stare a braccia conserte. Benché abbia già inviato una lettera al Padre, non fidandosi troppo del pessimo servizio postale del dopoguerra, Álvaro del Portillo ne consegna un'altra nelle mani di un diplomatico spagnolo che rientra a Madrid. «Io non posso far altro… adesso tocca a lei». (4) E benché sappia che il Padre è affetto da una forma grave di diabete mellito, gli comunica che ritiene opportuno che egli si rechi a Roma.

Appena ricevute le due lettere, il Padre riunisce in un centro dell'Opus Dei, in via Villanueva, a Madrid, i membri del Consiglio generale dell'Opera. Legge loro le lettere di Álvaro ed espone senza eufemismi il parere negativo dei medici sull'opportunità di intraprendere quel viaggio. Il dottor Rof Carballo gli ha detto: «Io non rispondo della sua vita».

Sono poco più che ragazzi coloro che fanno parte del governo dell'Opera, ma hanno la maturità della vita interiore. Con il cuore stretto danno la precedenza a una missione che li trascende. Senza un attimo di dubbio condividono Il desiderio del Padre che hanno intuito. E lo incoraggiano a salpare al più presto.

«Vi ringrazio. Ma sarei partito in ogni caso: quello che si deve fare si fa.» (5)

Questo accadeva lunedì 17 giugno 1946. In poche ore si sbrigano le pratiche per i visti e per i biglietti. Mercoledì 19, alle tre e mezzo del pomeriggio, il Padre prende la strada per Saragozza. Da lì prosegue per Barcellona per imbarcarsi sul J. J. Sister fino a Genova. Finalmente, ancora via terra, percorrerà l'ultima tappa del lunghissimo viaggio che lo porterà a Roma. Oggi basterebbe un breve volo dall'aeroporto di Madrid a Fiumicino; ma allora, nell'immediato dopoguerra, senza comunicazioni aeree regolari tra la Spagna e l'Italia, ed essendo chiusa la frontiera con la Francia, non si poteva fare altrimenti.

Lungo il percorso il Padre vuole fermarsi in tre santuari dedicati alla Madonna: a Saragozza, al santuario del Pilar. Al passaggio dai Bruchs vuol fare una deviazione per Montserrat. Infine, a Barcellona, una visita alla Madonna della Mercede. È il figlio che cerca in sua Madre, «onnipotenza supplicante», tutte le raccomandazioni, tutte le forze e tutte le luci di cui avrà bisogno.

Anche a Barcellona, alle prime ore del mattino di venerdì 21, Escrivá riunisce un gruppetto di suoi figli nell'oratorio del piccolo Centro di via Muntaner. Fanno insieme un tratto di orazione. Guardando fisso il tabernacolo, il Padre si rivolge al Signore con parole che Gesù conosce bene: «Ecce nos reliquimus omnia, et secuti sumus te: quid ergo erit nobis?» [Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito: che sarà di noi?] (6)

È, letteralmente, lo stesso lamento che duemila anni prima Pietro rivolse al Gesù, facendosi portavoce delle inquietudini e delle ansie dei dodici. Con la fiducia di quell'amore buono, capace di rivolgersi a Dio in un a tu per tu profondo, amichevole, che viene da molto lontano, Escrivá riprende a parlare a mezza voce, in tono intimo, emozionato:

«Signore, hai tu potuto permettere che io, in buona fede, ingannassi tante anime? Ma se ho fatto tutto per la tua gloria, e sapendo che è la tua volontà! È mai possibile che la Santa Sede dica che siamo arrivati con un secolo di anticipo…?: Ecce nos reliquimus omnia, et secuti sumus te!… Non ho mai voluto ingannare nessuno. Non ho voluto far altro che servirti. Andrà dunque a finire che sono un imbroglione?» (7) È la supplica, alla fin fine, quasi con le lacrime agli occhi, di chi sulla terra non ha altro appiglio che il cielo.

A tarda ora del 22 giugno, il J.J. Sister attracca nel porto di Genova. Ad aspettare, passeggiando sulle banchine, ci sono Álvaro del Portillo e Salvador Canals. Il Padre abbraccia forte, molto forte, i suoi due figli. Poi si rivolge ad Álvaro e, guardandolo al di sopra degli occhiali, gli dice allegramente:

«Eccomi qua, brigante…! Ce l'hai fatta!»

È così tardi, quando arrivano all'albergo, che ormai non servono più nulla né al ristorante né in camera. Il Padre ha preso solo un caffè con qualche biscotto da quando è partito da Barcellona, trenta ore prima.

Álvaro aveva conservato un pezzettino di parmigiano della sua cena, pensando che potesse far piacere al Padre. Sarà l'unica cosa che Escrivá potrà mangiare quella sera.

Note

1. Testimonianza di don José Orlandis Rovira (AGP, RHF T-00184).

2. AGP, RHF 21165, p. 177.

3. Lettera, 25-I-1961, n. 19.

4-5. AGP, RHF 21165, pp. 985-986. Il dottor Juan Rof Carballo, che aveva in cura don Josemaría Escrivá a Madrid, lo sconsigliò di fare quel viaggio.

6. Mt 19, 27.

7. AGP, RHF 21164, pp. 1323-1324.

8. Ibidem, 1409

Pilar Urbano, Josemaría Escrivà, Romano, Leonardo, 1996, pp. 17-23.