Verso la Pasqua con papa Francesco

"Gli annunci di Dio sono sempre sorprese, perché il nostro Dio è il Dio delle sorprese". In questo articolo sono raccolti tutti gli interventi di papa Francesco nel corso della Settimana Santa 2018.

Omelia della messa della domenica di Pasqua

Omelia della veglia pasquale

Via Crucis al Colosseo presieduta da papa Francesco (venerdì santo)

Santa Messa in Coena Domini (giovedì santo)

Santa Messa del Crisma (giovedì santo)

Udienza generale del Mercoledì Santo

Domenica delle Palme - XXXIII Giornata Mondiale della Gioventù


Omelia della messa della domenica di Pasqua

Dopo l’ascolto della Parola di Dio, di questo passo del Vangelo, mi vengono da dire tre cose.

Primo: l’annuncio. Lì c’è un annuncio: il Signore è risorto. Quell’annuncio che dai primi tempi dei cristiani andava di bocca in bocca; era il saluto: il Signore è risorto. E le donne, che sono andate per ungere in corpo del Signore, si sono trovate davanti ad una sorpresa. La sorpresa … Gli annunci di Dio sono sempre sorprese, perché il nostro Dio è il Dio delle soprese. È così fin dall’inizio della storia della salvezza, dal nostro padre Abramo, Dio ti sorprende: “Ma, vai, vai, lascia, vattene dalla tua terra e va”. E Sempre c’è una sorpresa dietro l’altra. Dio non sa fare un annuncio senza sorprenderci. E la sorpresa è ciò che ti commuove il cuore, che ti tocca proprio lì, dove tu non lo aspetti. Per dirlo un po’ con il linguaggio dei giovani: la sorpresa è un colpo basso; tu non te lo aspetti. E Lui va e ti commuove. Primo: l’annuncio fatto sorpresa.

Secondo: la fretta. Le donne corrono, vanno di fretta a dire: “Ma, abbiamo trovato questo!”. Le soprese di Dio ci mettono in cammino, subito, senza aspettare. E così corrono per vedere. E Pietro e Giovanni corrono. I pastori, quella notte di Natale, corrono: “Andiamo a Betlemme a vedere questo che ci hanno detto gli angeli”. E la Samaritana, corre per dire alla sua gente: “Questa è una novità: ho trovato un uomo che mi ha detto tutto quello che io ho fatto”. E la gente sapeva le cose che questa aveva fatto. E quella gente, corre, lascia quello che sta facendo, anche la casalinga lascia le patate nella pentola – le troverà bruciate -, ma l’importante è andare, correre, per vedere quella sorpresa, quell’annuncio. Anche oggi succede. Nei nostri quartieri, nei villaggi quando succede qualcosa di straordinario, la gente corre a vedere. Andare di fretta. Andrea, non ha perso tempo e di fretta è andato da Pietro a dirgli: “Abbiamo trovato il Messia”. Le sorprese, le buone notizie, si danno sempre così: di fretta. Nel Vangelo c’è uno che si prende un po’ di tempo; non vuole rischiare. Ma il Signore è buono, lo aspetta con amore, è Tommaso. “Io crederò quando vedrò le piaghe” dice. Anche il Signore ha pazienza per coloro che non vanno così di fretta.

L’annuncio-sorpresa, la risposta di fretta e il terzo che io vorrei dirvi oggi è una domanda: “E io? Ho il cuore aperto alle sorprese di Dio, sono capace di andare di fretta o sempre con quella cantilena: “Ma, domani vedrò, domani, domani?”. Cosa dice a me la sorpresa? Giovanni e Pietro sono andati di corsa al sepolcro. Di Giovanni il Vangelo ci dice: “Credette”. Anche Pietro: “Credette”, ma a suo modo, con la fede un po’ mischiata con il rimorso di aver rinnegato il Signore. L’annuncio fatto sorpresa, la corsa\andare di fretta, e la domanda: “E io, oggi, in questa Pasqua 2018, io che faccio? Tu, che fai?

Omelia della veglia pasquale

Questa celebrazione l’abbiamo cominciata all’esterno, immersi nell’oscurità della notte e nel freddo che l’accompagna. Sentiamo il peso del silenzio davanti alla morte del Signore, un silenzio in cui ognuno di noi può riconoscersi e che cala profondo nelle fenditure del cuore del discepolo che dinanzi alla croce rimane senza parole.

Sono le ore del discepolo ammutolito di fronte al dolore generato dalla morte di Gesù: che dire davanti a questa realtà? Il discepolo che rimane senza parole prendendo coscienza delle proprie reazioni durante le ore cruciali della vita del Signore: di fronte all’ingiustizia che ha condannato il Maestro, i discepoli hanno fatto silenzio; di fronte alle calunnie e alla falsa testimonianza subite dal Maestro, i discepoli hanno taciuto. Durante le ore difficili e dolorose della Passione, i discepoli hanno sperimentato in modo drammatico la loro incapacità di rischiare e di parlare in favore del Maestro; di più, lo hanno rinnegato, si sono nascosti, sono fuggiti, sono stati zitti (cfr Gv 18,25-27).

E’ la notte del silenzio del discepolo che si trova intirizzito e paralizzato, senza sapere dove andare di fronte a tante situazioni dolorose che lo opprimono e lo circondano. E’ il discepolo di oggi, ammutolito davanti a una realtà che gli si impone facendogli sentire e, ciò che è peggio, credere che non si può fare nulla per vincere tante ingiustizie che vivono nella loro carne tanti nostri fratelli.

E’ il discepolo frastornato perché immerso in una routine schiacciante che lo priva della memoria, fa tacere la speranza e lo abitua al “si è fatto sempre così”. E’ il discepolo ammutolito e ottenebrato che finisce per abituarsi e considerare normale l’espressione di Caifa: «Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!» (Gv 11,50).

E in mezzo ai nostri silenzi, quando tacciamo in modo così schiacciante, allora le pietre cominciano a gridare (cfr Lc 19,40)[1] e a lasciare spazio al più grande annuncio che la storia abbia mai potuto contenere nel suo seno: «Non è qui. E’ risorto» (Mt 28,6). La pietra del sepolcro gridò e col suo grido annunciò a tutti una nuova via. Fu il creato il primo a farsi eco del trionfo della Vita su tutte le realtà che cercarono di far tacere e di imbavagliare la gioia del vangelo. Fu la pietra del sepolcro la prima a saltare e, a modo suo, a intonare un canto di lode e di entusiasmo, di gioia e di speranza a cui tutti siamo invitati a partecipare.

E se ieri, con le donne, abbiamo contemplato «colui che hanno trafitto» (Gv 19,37; cfr Zc 12,10), oggi con esse siamo chiamati a contemplare la tomba vuota e ad ascoltare le parole dell’angelo: «Non abbiate paura […] E’ risorto» (Mt 28,5-6). Parole che vogliono raggiungere le nostre convinzioni e certezze più profonde, i nostri modi di giudicare e di affrontare gli avvenimenti quotidiani; specialmente il nostro modo di relazionarci con gli altri. La tomba vuota vuole sfidare, smuovere, interrogare, ma soprattutto vuole incoraggiarci a credere e ad aver fiducia che Dio “avviene” in qualsiasi situazione, in qualsiasi persona, e che la sua luce può arrivare negli angoli più imprevedibili e più chiusi dell’esistenza. E’ risorto dalla morte, è risorto dal luogo da cui nessuno aspettava nulla e ci aspetta – come aspettava le donne – per renderci partecipi della sua opera di salvezza. Questo è il fondamento e la forza che abbiamo come cristiani per spendere la nostra vita e la nostra energia, intelligenza, affetti e volontà nel ricercare e specialmente nel generare cammini di dignità. Non è qui… E’ risorto! E’ l’annuncio che sostiene la nostra speranza e la trasforma in gesti concreti di carità. Quanto abbiamo bisogno di lasciare che la nostra fragilità sia unta da questa esperienza! Quanto abbiamo bisogno che la nostra fede sia rinnovata, che i nostri miopi orizzonti siano messi in discussione e rinnovati da questo annuncio! Egli è risorto e con Lui risorge la nostra speranza creativa per affrontare i problemi attuali, perché sappiamo che non siamo soli.

Celebrare la Pasqua significa credere nuovamente che Dio irrompe e non cessa di irrompere nelle nostre storie, sfidando i nostri determinismi uniformanti e paralizzanti. Celebrare la Pasqua significa lasciare che Gesù vinca quell’atteggiamento pusillanime che tante volte ci assedia e cerca di seppellire ogni tipo di speranza.

La pietra del sepolcro ha fatto la sua parte, le donne hanno fatto la loro parte, adesso l’invito viene rivolto ancora una volta a voi e a me: invito a rompere le abitudini ripetitive, a rinnovare la nostra vita, le nostre scelte e la nostra esistenza. Un invito che ci viene rivolto là dove ci troviamo, in ciò che facciamo e che siamo; con la “quota di potere” che abbiamo. Vogliamo partecipare a questo annuncio di vita o resteremo muti davanti agli avvenimenti?

Non è qui, è risorto! E ti aspetta in Galilea, ti invita a tornare al tempo e al luogo del primo amore, per dirti: “Non avere paura, seguimi”.

Via Crucis al Colosseo presieduta da papa Francesco (venerdì santo)

Signore Gesù, il nostro sguardo è rivolto a te, pieno di vergogna, di pentimento e di speranza.

Dinanzi al tuo supremo amore ci pervada la vergogna per averti lasciato solo a soffrire per i nostri peccati:

la vergogna per essere scappati dinanzi alla prova pur avendoti detto migliaia di volte: “anche se tutti ti lasciano, io non ti lascerò mai”;

la vergogna di aver scelto Barabba e non te, il potere e non te, l’apparenza e non te, il dio denaro e non te, la mondanità e non l’eternità;

la vergogna per averti tentato con la bocca e con il cuore, ogni volta che ci siamo trovati davanti a una prova, dicendoti: “se tu sei il messia, salvati e noi crederemo!”;

la vergogna perché tante persone, e perfino alcuni tuoi ministri, si sono lasciati ingannare dall’ambizione e dalla vana gloria perdendo la loro degnità e il loro primo amore;

la vergogna perché le nostre generazioni stanno lasciando ai giovani un mondo fratturato dalle divisioni e dalle guerre; un mondo divorato dall’egoismo ove i giovani, i piccoli, i malati, gli anziani sono emarginati;

la vergogna di aver perso la vergogna;

Signore Gesù, dacci sempre la grazia della santa vergogna!

Il nostro sguardo è pieno anche di un pentimento che dinanzi al tuo silenzio eloquente supplica la tua misericordia:

il pentimento che germoglia dalla certezza che solo tu puoi salvarci dal male, solo tu puoi guarirci dalla nostra lebbra di odio, di egoismo, di superbia, di avidità, di vendetta, di cupidigia, di idolatria, solo tu puoi riabbracciarci ridonandoci la dignità filiale e gioire per il nostro rientro a casa, alla vita;

il pentimento che sboccia dal sentire la nostra piccolezza, il nostro nulla, la nostra vanità e che si lascia accarezzare dal tuo invito soave e potente alla conversione;

il pentimento di Davide che dall’abisso della sua miseria ritrova in te la sua unica forza;

il pentimento che nasce dalla nostra vergogna, che nasce dalla certezza che il nostro cuore resterà sempre inquieto finché non trovi te e in te la sua unica fonte di pienezza e di quiete;

il pentimento di Pietro che incontrando il tuo sguardo pianse amaramente per averti negato dinanzi agli uomini.

Signore Gesù, dacci sempre la grazia del santo pentimento!

Dinanzi alla tua suprema maestà si accende, nella tenebrosità della nostra disperazione, la scintilla della speranza perché sappiamo che la tua unica misura di amarci è quella di amarci senza misura;

la speranza perché il tuo messaggio continua a ispirare, ancora oggi, tante persone e popoli a che solo il bene può sconfiggere il male e la cattiveria, solo il perdono può abbattere il rancore e la vendetta, solo l’abbraccio fraterno può disperdere l’ostilità e la paura dell’altro;

la speranza perché il tuo sacrificio continua, ancora oggi, a emanare il profumo dell’amore divino che accarezza i cuori di tanti giovani che continuano a consacrarti le loro vite divenendo esempi vivi di carità e di gratuità in questo nostro mondo divorato dalla logica del profitto e del facile guadagno;

la speranza perché tanti missionari e missionarie continuano, ancora oggi, a sfidare l’addormentata coscienza dell’umanità rischiando la vita per servire te nei poveri, negli scartati, negli immigrati, negli invisibili, negli sfruttati, negli affamati e nei carcerati;

la speranza perché la tua Chiesa, santa e fatta da peccatori, continua, ancora oggi, nonostante tutti i tentativi di screditarla, a essere una luce che illumina, incoraggia, solleva e testimonia il tuo amore illimitato per l’umanità, un modello di altruismo, un’arca di salvezza e una fonte di certezza e di verità;

la speranza perché dalla tua croce, frutto dell’avidità e codardia di tanti dottori della Legge e ipocriti, è scaturita la Risurrezione trasformando le tenebre della tomba nel fulgore dell’alba della Domenica senza tramonto, insegnandoci che il tuo amore è la nostra speranza.

Signore Gesù, dacci sempre la grazia della santa speranza!

Aiutaci, Figlio dell’uomo, a spogliarci dall’arroganza del ladrone posto alla tua sinistra e dei miopi e dei corrotti, che hanno visto in te un’opportunità da sfruttare, un condannato da criticare, uno sconfitto da deridere, un’altra occasione per addossare sugli altri, e perfino su Dio, le proprie colpe.

Ti chiediamo invece, Figlio di Dio, di immedesimarci col buon ladrone che ti ha guardato con occhi pieni di vergogna, di pentimento e di speranza; che, con gli occhi della fede, ha visto nella tua apparente sconfitta la divina vittoria e così si è inginocchiato dinanzi alla tua misericordia e con onestà ha derubato il paradiso! Amen!

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Santa Messa in Coena Domini nella casa circondariale "Regina Coeli" di Roma (giovedì santo)

Gesù finisce il suo discorso dicendo: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Lavare i piedi. I piedi, in quel tempo, erano lavati dagli schiavi: era un compito da schiavo. La gente percorreva la strada, non c’era l’asfalto, non c’erano i sampietrini; in quel tempo c’era la polvere della strada e la gente si sporcava i piedi. E all’entrata della casa c’erano gli schiavi che lavavano i piedi. Era un lavoro da schiavi. Ma era un servizio: un servizio fatto da schiavi. E Gesù volle fare questo servizio, per darci un esempio di come noi dobbiamo servirci gli uni gli altri.

Una volta, quando erano in cammino, due dei discepoli che volevano fare carriera, avevano chiesto a Gesù di occupare dei posti importanti, uno alla sua destra e l’altro alla sinistra (cfr Mc 10,35-45). E Gesù li ha guardati con amore – Gesù guardava sempre con amore – e ha detto: “Voi non sapete ciò che domandate” (v. 38). I capi delle Nazioni – dice Gesù – comandano, si fanno servire, e loro stanno bene (cfr v.42). Pensiamo a quell’epoca dei re, degli imperatori tanto crudeli, che si facevano servire dagli schiavi … Ma fra voi – dice Gesù – non deve essere lo stesso: chi comanda deve servire. Il capo vostro deve essere il vostro servitore (cfr. v.43). Gesù capovolge l’abitudine storica, culturale di quell’epoca – anche questa di oggi – colui che comanda, per essere un bravo capo, sia dove sia, deve servire. Io penso tante volte – non a questo tempo perché ognuno ancora è vivo e ha l’opportunità di cambiare vita e non possiamo giudicare, ma pensiamo alla storia – se tanti re, imperatori, capi di Stato avessero capito questo insegnamento di Gesù e invece di comandare, di essere crudeli, di uccidere la gente avessero fatto questo, quante guerre non sarebbero state fatte! Il servizio: davvero c’è gente che non facilita questo atteggiamento, gente superba, gente odiosa, gente che forse ci augura del male; ma noi siamo chiamati a servirli di più. E anche c’è gente che soffre, che è scartata dalla società, almeno per un periodo, e Gesù va lì a dir loro: Tu sei importante per me. Gesù viene a servirci, e il segnale che Gesù ci serve oggi qui, al carcere di Regina Coeli, è che ha voluto scegliere 12 di voi, come i 12 apostoli, per lavare i piedi. Gesù rischia su ognuno di noi. Sappiate questo: Gesù si chiama Gesù, non si chiama Ponzio Pilato. Gesù non sa lavarsi le mani: soltanto sa rischiare! Guardate questa immagine tanto bella: Gesù chinato tra le spine, rischiando di ferirsi per prendere la pecorella smarrita.

Oggi io, che sono peccatore come voi, ma rappresento Gesù, sono ambasciatore di Gesù. Oggi, quando io mi inchino davanti a ognuno di voi, pensate: “Gesù ha rischiato in quest’uomo, un peccatore, per venire da me e dirmi che mi ama”. Questo è il servizio, questo è Gesù: non ci abbandona mai; non si stanca mai di perdonarci. Ci ama tanto. Guardate come rischia, Gesù!

E così, con questi sentimenti, andiamo avanti con questa cerimonia che è simbolica. Prima di darci il suo corpo e il suo sangue, Gesù rischia per ognuno di noi, e rischia nel servizio perché ci ama tanto.

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Al gesto dello scambio della pace, il Santo Padre ha pronunciato queste parole:

E adesso, tutti noi – sono sicuro che tutti noi – abbiamo la voglia di essere in pace con tutti. Ma nel nostro cuore ci sono tante volte sentimenti contrastanti. È facile essere in pace con coloro a cui vogliamo bene e con quanti ci fanno del bene; ma non è facile essere in pace con quelli che ci hanno fatto torto, che non ci vogliono bene, con i quali siamo in inimicizia. In silenzio, un attimo, ognuno pensi a coloro che ci vogliono bene e a cui noi vogliamo bene, e anche ognuno di noi pensi a coloro che non ci vogliono bene e anche a coloro a cui noi non vogliamo e anche – anzi – a coloro su cui noi vorremmo vendicarci. E chiediamo al Signore, in silenzio, la grazia di dare a tutti, buoni e cattivi, il dono della pace

Risposta di papa Francesco al saluto della direttrice e di un detenuto del carcere Regina Coeli.

Tu hai parlato di uno sguardo nuovo: rinnovare lo sguardo … Questo fa bene, perché alla mia età, per esempio, vengono le cateratte, e non si vede bene la realtà: l’anno prossimo dovremo fare l’intervento. Ma così succede con l’anima: il lavoro della vita, la stanchezza, gli sbagli, le delusioni oscurano lo sguardo, lo sguardo dell’anima. E per questo, quello che tu hai detto è vero: approfittare delle opportunità per rinnovare lo sguardo. E come ho detto in piazza S. Pietro in tanti paesini, ma anche nella mia terra, quando si sentono le campane della Resurrezione del Signore, le mamme, le nonne portano i bambini a lavarsi gli occhi perché abbiano lo sguardo della speranza del Cristo risorto. Non stancatevi mai di rinnovare lo sguardo. Di fare quell’intervento di cateratte all’anima, quotidiano. Ma sempre rinnovare lo sguardo. E’ un bello sforzo.

Tutti voi conoscete la bottiglia di vino a metà: se io guardo la metà vuota, è brutta la vita, è brutta, ma se guardo la metà piena, ancora ho da bere. Lo sguardo che apre alla speranza, parola che tu hai detto e anche lei [la direttrice] ha detto; e lei l’ha ripetuta parecchie volte. Non si può concepire una casa circondariale come questa senza speranza. Qui, gli ospiti sono per imparare o fare crescere il “seminare speranza”: non c’è alcuna pena giusta – giusta! – senza che sia aperta alla speranza. Una pena che non sia aperta alla speranza non è cristiana, non è umana!

Ci sono le difficoltà nella vita, le cose brutte, la tristezza – uno pensa ai suoi, pensa alla mamma, al papà, alla moglie, al marito, ai figli … è brutta, quella tristezza. Ma non lasciarsi andare giù: no, no. Io sono qui, ma per reinserirmi, rinnovato o rinnovata. E questa è la speranza. Seminare speranza. Sempre, sempre. Il vostro lavoro è questo: aiutare a seminare la speranza di reinserimento, e questo ci farà bene a tutti. Sempre. Ogni pena dev’essere aperta all’orizzonte della speranza. Per questo, non è né umana né cristiana la pena di morte. Ogni pena dev’essere aperta alla speranza, al reinserimento, anche per dare l’esperienza vissuta per il bene delle altre persone.

Acqua di resurrezione, sguardo nuovo, speranza: questo vi auguro. So che voi ospiti avete lavorato tanto per preparare questa visita, anche imbiancare le pareti: vi ringrazio. È per me un segnale di benevolenza e di accoglienza, e vi ringrazio tanto. Vi sono vicino, prego per voi, e voi pregate per me e non dimenticatevi: l’acqua che fa lo sguardo nuovo, e la speranza.

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Santa Messa del Crisma (giovedì santo)

Leggendo i testi della liturgia di oggi mi veniva alla mente, con insistenza, il passo del Deuteronomio che dice: «Infatti quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (4,7). La vicinanza di Dio… la nostra vicinanza apostolica.

Nel testo del profeta Isaia contempliamo l’inviato di Dio già “unto e mandato”, in mezzo al suo popolo, vicino ai poveri, ai malati, ai prigionieri…; e lo Spirito che “è su di Lui”, che lo spinge e lo accompagna lungo il cammino.

Nel Salmo 88 vediamo come la compagnia di Dio, che fin dalla giovinezza ha guidato per mano il re Davide e gli ha prestato il suo braccio, adesso che è anziano prende il nome di fedeltà: la vicinanza mantenuta nel corso del tempo si chiama fedeltà.

L’Apocalisse ci fa avvicinare, fino a rendercelo visibile, all’«Erchomenos», al Signore in persona che sempre «viene», sempre. L’allusione al fatto che lo vedranno «anche quelli che lo trafissero» ci fa sentire che sono sempre visibili le piaghe del Signore risorto, che il Signore ci viene sempre incontro se noi vogliamo “farci prossimi” alla carne di tutti coloro che soffrono, specialmente dei bambini.

Nell’immagine centrale del Vangelo di oggi, contempliamo il Signore attraverso gli occhi dei suoi compaesani che erano «fissi su di Lui» (Lc 4,20). Gesù si alzò per leggere nella sinagoga di Nazaret. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia. Lo srotolò finché trovò il passo dell’inviato di Dio. Lesse ad alta voce: «Lo spirito del Signore è su di me […], mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato…» (61,1). E concluse stabilendo la vicinanza così provocatrice di quelle parole: «Oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21).

Gesù trova il passo e legge con la competenza degli scribi. Egli avrebbe potuto perfettamente essere uno scriba o un dottore della legge, ma ha voluto essere un “evangelizzatore”, un predicatore di strada, il «Messaggero di buone notizie» per il suo popolo, il predicatore i cui piedi sono belli, come dice Isaia (cfr 52,7). Il predicatore è vicino.

Questa è la grande scelta di Dio: il Signore ha scelto di essere uno che sta vicino al suo popolo. Trent’anni di vita nascosta! Solo dopo comincerà a predicare. E’ la pedagogia dell’incarnazione, dell’inculturazione; non solo nelle culture lontane, anche nella propria parrocchia, nella nuova cultura dei giovani…

La vicinanza è più che il nome di una virtù particolare, è un atteggiamento che coinvolge tutta la persona, il suo modo di stabilire legami, di essere contemporaneamente in sé stessa e attenta all’altro. Quando la gente dice di un sacerdote che “è vicino”, di solito fa risaltare due cose: la prima è che “c’è sempre” (contrario del “non c’è mai”: “Lo so, padre, che Lei è molto occupato” – dicono spesso). E l’altra cosa è che sa trovare una parola per ognuno. “Parla con tutti – dice la gente –: coi grandi, coi piccoli, coi poveri, con quelli che non credono… Preti vicini, che ci sono, che parlano con tutti… Preti di strada.

E uno che ha imparato bene da Gesù a essere predicatore di strada è stato Filippo. Dicono gli Atti che andava di luogo in luogo annunciando la Buona Notizia della Parola predicando in tutte le città, e che queste si riempivano di gioia (cfr 8,4-8). Filippo era uno di quelli che lo Spirito poteva “sequestrare” in qualsiasi momento e farli partire per evangelizzare, andando da un posto all’altro, uno capace anche di battezzare gente di buona fede, come il ministro della regina di Etiopia, e di farlo lì per lì, lungo la strada (cfr At 8,5; 36-40).

La vicinanza, cari fratelli, è la chiave dell’evangelizzatore perché è un atteggiamento-chiave nel Vangelo (il Signore la usa per descrivere il Regno). Noi diamo per acquisito che la prossimità è la chiave della misericordia, perché la misericordia non sarebbe tale se non si ingegnasse sempre, come “buona samaritana”, per eliminare le distanze. Credo però che abbiamo bisogno di acquisire meglio il fatto che la vicinanza è anche la chiave della verità; non solo della misericordia, ma anche la chiave della verità. Si possono eliminare le distanze nella verità? Sì, si può. Infatti la verità non è solo la definizione che permette di nominare le situazioni e le cose tenendole a distanza con concetti e ragionamenti logici. Non è solo questo. La verità è anche fedeltà (emeth), quella che ti permette di nominare le persone col loro nome proprio, come le nomina il Signore, prima di classificarle o di definire “la loro situazione”. E qui, c’è questa abitudine – brutta, no? – della “cultura dell’aggettivo”: questo è così, questo è un tale, questo è un quale … No, questo è figlio di Dio. Poi, avrà le virtù o i difetti, ma la verità fedele della persona e non l’aggettivo fatto sostanza.

Bisogna stare attenti a non cadere nella tentazione di farsi idoli di alcune verità astratte. Sono idoli comodi, a portata di mano, che danno un certo prestigio e potere e sono difficili da riconoscere. Perché la “verità-idolo” si mimetizza, usa le parole evangeliche come un vestito, ma non permette che le si tocchi il cuore. E, ciò che è molto peggio, allontana la gente semplice dalla vicinanza risanatrice della Parola e dei Sacramenti di Gesù.

Su questo punto, rivolgiamoci a Maria, Madre dei sacerdoti. La possiamo invocare come “Madonna della Vicinanza”: «Come una vera madre, cammina con noi, combatte con noi, ed effonde incessantemente la vicinanza dell’amore di Dio» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 286), in modo tale che nessuno si senta escluso. La nostra Madre non solo è vicina per il suo mettersi al servizio con quella «premura» (ibid., 288) che è una forma di vicinanza, ma anche col suo modo di dire le cose. A Cana, la tempestività e il tono con cui dice ai servi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5), farà sì che quelle parole diventino il modello materno di ogni linguaggio ecclesiale. Ma, per dirle come lei, oltre a chiedere la grazia, bisogna saper stare lì dove si “cucinano” le cose importanti, quelle che contano per ogni cuore, ogni famiglia, ogni cultura. Solo in questa vicinanza – possiamo dire “di cucina” - si può discernere qual è il vino che manca e qual è quello di migliore qualità che il Signore vuole dare.

Vi suggerisco di meditare tre ambiti di vicinanza sacerdotale nei quali queste parole: “Fate tutto quello che Gesù vi dirà” devono risuonare – in mille modi diversi ma con un medesimo tono materno – nel cuore delle persone con cui parliamo: l’ambito dell’accompagnamento spirituale, quello della Confessione e quello della predicazione.

La vicinanza nel dialogo spirituale, la possiamo meditare contemplando l’incontro del Signore con la Samaritana. Il Signore le insegna a riconoscere prima di tutto come adorare, in Spirito e verità; poi, con delicatezza, la aiuta a dare un nome al suo peccato, senza offenderla; e infine il Signore si lascia contagiare dal suo spirito missionario e va con lei a evangelizzare nel suo villaggio. Modello di dialogo spirituale, questo del Signore, che sa far venire alla luce il peccato della Samaritana senza che getti ombra sulla sua preghiera di adoratrice né che ponga ostacoli alla sua vocazione missionaria.

La vicinanza nella Confessione la possiamo meditare contemplando il passo della donna adultera. Lì si vede chiaramente come la vicinanza è decisiva perché le verità di Gesù sempre avvicinano e si dicono (si possono dire sempre) a tu per tu. Guardare l’altro negli occhi – come il Signore quando si alza in piedi dopo essere stato in ginocchio vicino all’adultera che volevano lapidare e le dice: «Neanch’io ti condanno» (Gv 8,11) – non è andare contro la legge. E si può aggiungere: «D’ora in poi non peccare più» (ibid.) non con un tono che appartiene all’ambito giuridico della verità-definizione – il tono di chi deve determinare quali sono i condizionamenti della Misericordia divina – ma con un’espressione che si dice nell’ambito della verità-fedele, che permette al peccatore di guardare avanti e non indietro. Il tono giusto di questo «non peccare più» è quello del confessore che lo dice disposto a ripeterlo settanta volte sette.

Da ultimo, l’ambito della predicazione. Meditiamo su di esso pensando a coloro che sono lontani, e lo facciamo ascoltando la prima predica di Pietro, che si colloca nel contesto dell’avvenimento di Pentecoste. Pietro annuncia che la parola è «per tutti quelli che sono lontani» (At 2,39), e predica in modo tale che il kerygma “trafigge il loro cuore” e li porta a domandare: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). Domanda che, come dicevamo, dobbiamo fare e alla quale dobbiamo rispondere sempre in tono mariano, ecclesiale. L’omelia è la pietra di paragone «per valutare la vicinanza e la capacità di incontro di un Pastore con il suo popolo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 135). Nell’omelia si vede quanto vicini siamo stati a Dio nella preghiera e quanto vicini siamo alla nostra gente nella sua vita quotidiana.

La buona notizia si attua quando queste due vicinanze si alimentano e si curano a vicenda. Se ti senti lontano da Dio, ma per favore, avvicinati al suo popolo, che ti guarirà dalle ideologie che ti hanno intiepidito il fervore. I piccoli ti insegneranno a guardare Gesù in un modo diverso. Ai loro occhi, la Persona di Gesù è affascinante, il suo buon esempio dà autorità morale, i suoi insegnamenti servono per la vita. E se tu, ti senti lontano dalla gente, avvicinati al Signore, alla sua Parola: nel Vangelo Gesù ti insegnerà il suo modo di guardare la gente, quanto vale ai suoi occhi ognuno di coloro per i quali ha versato il suo sangue sulla croce. Nella vicinanza con Dio, la Parola si farà carne in te e diventerai un prete vicino ad ogni carne. Nella vicinanza con il popolo di Dio, la sua carne dolorosa diventerà parola nel tuo cuore e avrai di che parlare con Dio, diventerai un prete intercessore.

Il sacerdote vicino, che cammina in mezzo alla sua gente con vicinanza e tenerezza di buon pastore (e, nella sua pastorale, a volte sta davanti, a volte in mezzo e a volte indietro), la gente non solo lo apprezza molto, va oltre: sente per lui qualcosa di speciale, qualcosa che sente soltanto alla presenza di Gesù. Perciò non è una cosa in più questo riconoscere la nostra vicinanza. In essa ci giochiamo se Gesù sarà reso presente nella vita dell’umanità, oppure se rimarrà sul piano delle idee, chiuso in caratteri a stampatello, incarnato tutt’al più in qualche buona abitudine che poco alla volta diventa routine.

Cari fratelli sacerdoti, chiediamo a Maria, “Madonna della Vicinanza”, che ci avvicini tra di noi e, al momento di dire alla nostra gente di “fare tutto quello che Gesù dice”, ci unifichi il tono, perché nella diversità delle nostre opinioni si renda presente la sua vicinanza materna, quella che col suo “sì” ci ha avvicinato a Gesù per sempre.

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Udienza generale del Mercoledì Santo

Oggi vorrei soffermarmi a meditare sul Triduo Pasquale che incomincia domani, per approfondire un po’ quello che i giorni più importanti dell’anno liturgico rappresentano per noi credenti. Vorrei farvi una domanda: quale festa è la più importante della nostra fede: il Natale o la Pasqua? La Pasqua perché è la festa della nostra salvezza, la festa dell’amore di Dio per noi, la festa, la celebrazione della sua morte e Risurrezione. E per questo io vorrei riflettere con voi su questa festa, su questi giorni, che sono giorni pasquali, fino alla Risurrezione del Signore. Questi giorni costituiscono la memoria celebrativa di un grande unico mistero: la morte e la risurrezione del Signore Gesù. Il Triduo ha inizio domani, con la Messa della Cena del Signore e si concluderà con i vespri della Domenica di Risurrezione. Poi viene la “Pasquetta” per celebrare questa grande festa: un giorno in più. Ma questo è post-liturgico: è la festa familiare, è la festa della società. Esso segna le tappe fondamentali della nostra fede e della nostra vocazione nel mondo, e tutti i cristiani sono chiamati a vivere i tre Giorni santi – giovedì, venerdì, sabato; e la domenica - si capisce -, ma il sabato è la risurrezione – i tre Giorni santi come, per così dire, la “matrice” della loro vita personale, della loro vita comunitaria, come hanno vissuto i nostri fratelli ebrei l’esodo dall’Egitto.

Questi tre Giorni ripropongono al popolo cristiano i grandi eventi della salvezza operati da Cristo, e così lo proiettano nell’orizzonte del suo destino futuro e lo rafforzano nel suo impegno di testimonianza nella storia.

La mattina di Pasqua, ripercorrendo le tappe vissute nel Triduo, il Canto della Sequenza, cioè un inno o una sorta di Salmo, farà udire solennemente l’annuncio della risurrezione; e dice così: «Cristo, nostra speranza, è risorto e ci precede in Galilea». Questa è la grande affermazione: Cristo è risorto. E in tanti popoli del mondo, soprattutto nell’Est Europa, la gente si saluta in questi giorni pasquali non con “buongiorno”, “buonasera” ma con “Cristo è risorto”, per affermare il grande saluto pasquale. “Cristo è risorto”. In queste parole - “Cristo è risorto” - di commossa esultanza culmina il Triduo. Esse contengono non soltanto un annuncio di gioia e di speranza, ma anche un appello alla responsabilità e alla missione. E non finisce con la colomba, le uova, le feste – anche se questo è bello perché è la festa di famiglia - ma non finisce così. Incomincia lì il cammino alla missione, all’annuncio: Cristo è risorto. E questo annuncio, a cui il Triduo conduce preparandoci ad accoglierlo, è il centro della nostra fede e della nostra speranza, è il nocciolo, è l’annuncio, è - la parola difficile, ma che dice tutto -, è il kerygma, che continuamente evangelizza la Chiesa e che essa a sua volta è inviata ad evangelizzare.

San Paolo riassume l’evento pasquale in questa espressione: «Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato» (1 Cor 5,7), come l’agnello. È stato immolato. Pertanto - continua - «le cose vecchie sono passate e ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,15). Rinate. E per questo, nel giorno di Pasqua dall’inizio si battezzava la gente. Anche la notte di questo sabato io battezzerò qui, a San Pietro, otto persone adulte che incominciano la vita cristiana. E incomincia tutto perché saranno nate di nuovo. E con un’altra formula sintetica spiega San Paolo che Cristo «è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4,25). L’unico, l’unico che ci giustifica; l’unico che ci fa rinascere di nuovo è Gesù Cristo. Nessun altro. E per questo non si deve pagare nulla, perché la giustificazione – il farsi giusti – è gratuita. E questa è la grandezza dell’amore di Gesù: dà la vita gratuitamente per farci santi, per rinnovarci, per perdonarci. E questo è il nocciolo proprio di questo Triduo Pasquale. Nel Triduo Pasquale la memoria di questo avvenimento fondamentale si fa celebrazione piena di riconoscenza e, al tempo stesso, rinnova nei battezzati il senso della loro nuova condizione, che sempre l’Apostolo Paolo esprime così: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, […] e non…quelle della terra» (Col 3,1-3). Guardare in alto, guardare l’orizzonte, allargare gli orizzonti: questa è la nostra fede, questa è la nostra giustificazione, questo è lo stato di grazia! Per il Battesimo, infatti, siamo risorti con Gesù e siamo morti alle cose e alla logica del mondo; siamo rinati come creature nuove: una realtà che chiede di diventare esistenza concreta giorno per giorno.

Un cristiano, se veramente si lascia lavare da Cristo, se veramente si lascia spogliare da Lui dell’uomo vecchio per camminare in una vita nuova, pur rimanendo peccatore – perché tutti lo siamo - non può più essere corrotto, la giustificazione di Gesù ci salva dalla corruzione, siamo peccatori ma non corrotti; non può più vivere con la morte nell’anima, e neanche essere causa di morte. E qui devo dire una cosa triste e dolorosa… Ci sono i cristiani finti: quelli che dicono “Gesù è risorto”, “io sono stato giustificato da Gesù”, sono nella vita nuova, ma vivo una vita corrotta. E questi cristiani finti finiranno male. Il cristiano, ripeto, è peccatore – tutti lo siamo, io lo sono – ma abbiamo la sicurezza che quando chiediamo perdono il Signore ci perdona. Il corrotto fa finta di essere una persona onorevole, ma, alla fine nel suo cuore c’è la putredine. Una vita nuova ci dà Gesù. Il cristiano non può vivere con la morte nell’anima, neanche essere causa di morte. Pensiamo – per non andare lontano – pensiamo a casa, pensiamo ai cosiddetti “cristiani mafiosi”. Ma questi di cristiano non hanno nulla: si dicono cristiani, ma portano la morte nell’anima e agli altri. Preghiamo per loro, perché il Signore tocchi la loro anima. Il prossimo, soprattutto il più piccolo e il più sofferente, diventa il volto concreto a cui donare l’amore che Gesù ha donato a noi. E il mondo diventa lo spazio della nostra nuova vita da risorti. Noi siamo risorti con Gesù: in piedi, con la fronte alta, e possiamo condividere l’umiliazione di coloro che ancora oggi, come Gesù, sono nella sofferenza, nella nudità, nella necessità, nella solitudine, nella morte, per diventare, grazie a Lui e con Lui, strumenti di riscatto e di speranza, segni di vita e di risurrezione. In tanti Paesi - qui in Italia e anche nella mia patria - c’è l’abitudine che quando il giorno di Pasqua si sentono, si ascoltano le campane, le mamme, le nonne, portano i bambini a lavarsi gli occhi con l’acqua, con l’acqua della vita, come segno per poter vedere le cose di Gesù, le cose nuove. In questa Pasqua lasciamoci lavare l’anima, lavare gli occhi dell’anima, per vedere le cose belle, e fare delle cose belle. E questo è meraviglioso! Questa è proprio la Risurrezione di Gesù dopo la sua morte, che è stato il prezzo per salvare tutti noi.

Cari fratelli e sorelle, disponiamoci a vivere bene questo Triduo Santo ormai imminente – comincia domani -, per essere sempre più profondamente inseriti nel mistero di Cristo, morto e risorto per noi. Ci accompagni in questo itinerario spirituale la Vergine Santissima, che seguì Gesù nella sua passione – Lei era lì, guardava, soffriva… - fu presente e unita a Lui sotto la sua croce, ma non si vergognava del figlio. Una madre mai si vergogna del figlio! Era lì, e ricevette nel suo cuore di Madre l’immensa gioia della risurrezione. Lei ci ottenga la grazia di essere interiormente coinvolti dalle celebrazioni dei prossimi giorni, perché il nostro cuore e la nostra vita ne siano realmente trasformati.

E nel lasciarvi questi pensieri, formulo a tutti voi i più cordiali auguri di una lieta e santa Pasqua, insieme con le vostre comunità e i vostri cari.

E vi consiglio: la mattina di Pasqua portate i bambini al rubinetto e fategli lavare gli occhi. Sarà un segno di come vedere Gesù Risorto.

Sono lieto di accogliere i partecipanti all’Incontro internazionale UNIV, a 50 anni dall’inizio di tale significativo evento. Esorto tutti a vivere gli anni della formazione universitaria come preparazione integrale al servizio dell’uomo, testimoniando in esso la gioia e i valori della fede.

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Domenica delle Palme - XXXIII Giornata Mondiale della Gioventù

Gesù entra in Gerusalemme. La liturgia ci ha invitato a intervenire e partecipare alla gioia e alla festa del popolo che è capace di gridare e lodare il suo Signore; gioia che si appanna e lascia un sapore amaro e doloroso dopo aver finito di ascoltare il racconto della Passione. In questa celebrazione sembrano incrociarsi storie di gioia e di sofferenza, di errori e di successi che fanno parte del nostro vivere quotidiano come discepoli, perché riesce a mettere a nudo sentimenti e contraddizioni che oggi appartengono spesso anche a noi, uomini e donne di questo tempo: capaci di amare molto… e anche di odiare – e molto –; capaci di sacrifici valorosi e anche di saper “lavarcene le mani” al momento opportuno; capaci di fedeltà ma anche di grandi abbandoni e tradimenti.

E si vede chiaramente in tutta la narrazione evangelica che la gioia suscitata da Gesù è per alcuni motivo di fastidio e di irritazione.

Gesù entra in città circondato dalla sua gente, circondato da canti e grida chiassose. Possiamo immaginare che è la voce del figlio perdonato, quella del lebbroso guarito, o il belare della pecora smarrita che risuonano forti in questo ingresso, tutti insieme. E’ il canto del pubblicano e dell’impuro; è il grido di quello che viveva ai margini della città. E’ il grido di uomini e donne che lo hanno seguito perché hanno sperimentato la sua compassione davanti al loro dolore e alla loro miseria… E’ il canto e la gioia spontanea di tanti emarginati che, toccati da Gesù, possono gridare: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!». Come non acclamare Colui che aveva restituito loro la dignità e la speranza? E’ la gioia di tanti peccatori perdonati che hanno ritrovato fiducia e speranza. E questi gridano. Gioiscono. E’ la gioia.

Questa gioia osannante risulta scomoda e diventa assurda e scandalosa per quelli che si considerano giusti e “fedeli” alla legge e ai precetti rituali[1]. Gioia insopportabile per quanti hanno bloccato la sensibilità davanti al dolore, alla sofferenza e alla miseria. Ma tanti di questi pensano: “Guarda che popolo maleducato!”. Gioia intollerabile per quanti hanno perso la memoria e si sono dimenticati di tante opportunità ricevute. Com’è difficile comprendere la gioia e la festa della misericordia di Dio per chi cerca di giustificare sé stesso e sistemarsi! Com’è difficile poter condividere questa gioia per coloro che confidano solo nelle proprie forze e si sentono superiori agli altri![2]

E così nasce il grido di colui a cui non trema la voce per urlare: “Crocifiggilo!”. Non è un grido spontaneo, ma il grido montato, costruito, che si forma con il disprezzo, con la calunnia, col provocare testimonianze false. E’ il grido che nasce nel passaggio dal fatto al resoconto, nasce dal resoconto. E’ la voce di chi manipola la realtà e crea una versione a proprio vantaggio e non ha problemi a “incastrare” altri per cavarsela. Questo è un [falso] resoconto. Il grido di chi non ha scrupoli a cercare i mezzi per rafforzare sé stesso e mettere a tacere le voci dissonanti. E’ il grido che nasce dal “truccare” la realtà e dipingerla in maniera tale che finisce per sfigurare il volto di Gesù e lo fa diventare un “malfattore”. E’ la voce di chi vuole difendere la propria posizione screditando specialmente chi non può difendersi. E’ il grido fabbricato dagli “intrighi” dell’autosufficienza, dell’orgoglio e della superbia che proclama senza problemi: “Crocifiggilo, crocifiggilo!”.

E così alla fine si fa tacere la festa del popolo, si demolisce la speranza, si uccidono i sogni, si sopprime la gioia; così alla fine si blinda il cuore, si raffredda la carità. E’ il grido del “salva te stesso” che vuole addormentare la solidarietà, spegnere gli ideali, rendere insensibile lo sguardo… Il grido che vuole cancellare la compassione, quel “patire con”, la compassione, che è la debolezza di Dio.

Di fronte a tutte queste voci urlate, il miglior antidoto è guardare la croce di Cristo e lasciarci interpellare dal suo ultimo grido. Cristo è morto gridando il suo amore per ognuno di noi: per giovani e anziani, santi e peccatori, amore per quelli del suo tempo e per quelli del nostro tempo. Sulla sua croce siamo stati salvati affinché nessuno spenga la gioia del vangelo; perché nessuno, nella situazione in cui si trova, resti lontano dallo sguardo misericordioso del Padre. Guardare la croce significa lasciarsi interpellare nelle nostre priorità, scelte e azioni. Significa lasciar porre in discussione la nostra sensibilità verso chi sta passando o vivendo un momento di difficoltà. Fratelli e sorelle, che cosa vede il nostro cuore? Gesù continua a essere motivo di gioia e lode nel nostro cuore oppure ci vergogniamo delle sue priorità verso i peccatori, gli ultimi, i dimenticati?

E a voi, cari giovani, la gioia che Gesù suscita in voi è per alcuni motivo di fastidio e anche di irritazione, perché un giovane gioioso è difficile da manipolare. Un giovane gioioso è difficile da manipolare!

Ma esiste in questo giorno la possibilità di un terzo grido: «Alcuni farisei tra la folla gli dissero: “Maestro, rimprovera i tuoi discepoli”; ed Egli rispose: “Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”» (Lc 19,39-40).

Far tacere i giovani è una tentazione che è sempre esistita. Gli stessi farisei se la prendono con Gesù e gli chiedono di calmarli e farli stare zitti.

Ci sono molti modi per rendere i giovani silenziosi e invisibili. Molti modi di anestetizzarli e addormentarli perché non facciano “rumore”, perché non si facciano domande e non si mettano in discussione. “State zitti voi!”. Ci sono molti modi di farli stare tranquilli perché non si coinvolgano e i loro sogni perdano quota e diventino fantasticherie rasoterra, meschine, tristi.

In questa Domenica delle Palme, celebrando la Giornata Mondiale della Gioventù, ci fa bene ascoltare la risposta di Gesù ai farisei di ieri e di tutti i tempi, anche quelli di oggi: «Se questi taceranno, grideranno le pietre» (Lc 19,40).

Cari giovani, sta a voi la decisione di gridare, sta a voi decidervi per l’Osanna della domenica così da non cadere nel “crocifiggilo!” del venerdì… E sta a voi non restare zitti. Se gli altri tacciono, se noi anziani e responsabili – tante volte corrotti – stiamo zitti, se il mondo tace e perde la gioia, vi domando: voi griderete?

Per favore, decidetevi prima che gridino le pietre.

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[1] Cfr R. Guardini, Il Signore, Brescia-Milano 2005, 344-345.

[2]Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 94.