Mons. Echevarría risponde a 10 domande su san Josemaría Escrivá

San Josemaría non si stancò mai di servire Dio? Come reagiva davanti ai propri errori e davanti alle difficoltà? Qual era il suo segreto per mantenersi fedele e innamorato di Dio? Risponde Mons. Javier Echevarría, prelato dell'Opus Dei dal 1994 al 2016, e che fu al fianco del fondatore per più di vent'anni.

Mons. Javier Echevarría è stato a stretto contatto con san Josemaría, dal 1950. Questo rapporto divenne ancora più stretto dal 1956, quando venne scelto Custos del fondatore, cioè una delle due persone che, secondo gli Statuti dell’Opus Dei, hanno il compito di aiutare il Padre nella vita spirituale e nel lavoro quotidiano e di consigliarlo in ciò che ritengano opportuno.

San Josemaría, fin dal 1928, nel ricordare a tutti che sono chiamati da Dio a essere santi, fu un precursore del Concilio Vaticano II. Come rispose a questa chiamata di Dio nella sua vita personale?

Non si stancò mai di lottare per avvicinarsi sempre più al Signore, combattendo contro i difetti più piccoli con lo zelo esigente di una persona innamorata che vuole dare tutto il suo amore a Colui che ama: ogni giorno, nelle cose difficili e facili, importanti o apparentemente irrilevanti. Sono stato al suo fianco per quasi vent’anni, e posso affermare che gradì sempre i suggerimenti o i commenti che gli facevamo.

“Santità – ci diceva – vuol dire lotta costante contro i propri difetti. Santità vuol dire compiere il dovere di ogni istante, senza cercare scuse. Santità vuol dire servire gli altri, senza desiderare alcun genere di ricompensa. Santità vuol dire ricerca della presenza di Dio, stargli sempre accanto, con l’orazione e con il lavoro che si trasformano in un dialogo ininterrotto con il Signore. Santità vuol dire zelo per le anime, che fa dimenticare se stessi. Santità vuol dire essere sempre disponibili nell’incontro personale con Dio”.

E lottava per vivere quello che diceva. Sino al suo ultimo giorno di vita pregò i suoi due figli Custodi di aiutarlo ad essere più devoto, più allegro, più ottimista, a compiere con precisione i suoi doveri, a sopportare meglio la malattia, a lavorare instancabilmente e a donarsi del tutto. Ritengo di essere obiettivo se affermo che coscientemente non disse mai di no al Signore e che alle richieste divine non diede mai risposte a metà.

Può descrivere, brevemente, alcuni degli aspetti della lotta per migliorare il suo carattere, che possano aiutare i lettori a capire meglio com’era san Josemaría?

Quanto ai difetti, doveva stare attento al suo carattere, sbrigativo e spontaneo, e alla viva indignazione che provava di fronte alle cose fatte male o meno bene del dovuto.

Questi tratti del carattere, che si sarebbero potuti trasformare in difetti di peso, costituirono il punto di partenza per arricchire la sua personalità, diventando la base di quella fermezza di cui ebbe poi bisogno per affrontare ciò a cui il Signore lo destinava: l’impazienza si tramutò in santa audacia, e il temperamento impulsivo in severità verso se stesso e comprensione verso gli altri. Spesso ci confidava quanto portava nel profondo dell’anima: “Vi chiedo perdono per il fastidio che forse vi ho arrecato. Vi assicuro, e si tratta di una mia costante intenzione, che non voglio mortificare volutamente nessuno col mio modo di fare. Comunque, se ho arrecato fastidio a qualcuno per il mio modo di fare o per i miei atteggiamenti, gli chiedo perdono”. Non si lasciava trasportare dal proprio io. Sapeva controllare i moti primo primi e si sforzava di parlare e agire con rettitudine di intenzione, per servire il Signore e le anime.

Non ha mai cessato di chiedere il nostro aiuto; l’ho visto combattere contro i fili sottili che, quando non vengono spezzati, diventano legami che separano da Dio. Seppe raggiungere una serena equanimità, e la straordinaria vitalità del suo temperamento fu sempre moderata dalla prudenza e dalla fortezza.

Come reagiva davanti ai suoi errori?

A Barcelona (Spagna), novembre del 1972

Quando si accorgeva di aver sbagliato, reagiva con dolore di amore, ma cercando nello stesso tempo un più forte sostegno nella grazia. Spesso esclamava: “Non sono nulla, non ho nulla, non posso nulla, non valgo nulla, nulla! Ma con Lui posso tutto: omnia possum in eo qui me confortat (tutto posso in Colui che mi dà la forza, Filippesi 4,13). Penso che con il suo insegnamento molte anime sono riuscite a superare i complessi, le tristezze, le angustie, le diserzioni nella lotta spirituale, perché faceva capire loro che il Signore le aveva chiamate alla vita con queste debolezze e nello stesso tempo le chiamava alla santità: con Lui potevano arrivare a tutto.

Diceva: “Le nostre forze possono chiamarsi in un solo modo, hanno un solo nome: debolezza. Ne ho l’esperienza di tutta una vita. Diverremo forti solo quando ci renderemo veramente conto di essere deboli. Se pensassimo di essere forti, confidando in noi stessi, cadremmo lunghi distesi, su di un fetido letamaio”.

Partendo dalle parole del Vangelo: non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati (Matteo 9,12), disse una volta: “Questa è stata la mia costante preghiera tutto il giorno: Signore, io sono qui, io che sono un malato cronico e ho bisogno di Te!”.

Mi colpì una richiesta che mi fece nel 1950, quando avevo appena vent’anni. Con la sua spontaneità da innamorato, mi confidò: “Oggi mi addolora la mia mancanza di pietà: aiutami a chiedere perdono!”. Questi aneliti mi coinvolgevano profondamente, perché conoscevo bene il suo sforzo per essere molto devoto.

Non si scoraggiava nella lotta per essere migliore e per servire gli altri?

Spesso pensava che una madre o un padre vivono badando ai propri figli, anche quando arrivano esauriti a fine giornata. Riportava questo esempio alla propria vita, per vincere la fatica e non lasciare spiragli alla comodità.

Nel 1968 lo udii dire: “Ogni volta che in questi quarant’anni mi sono sentito soffocato, stanco, ho pregato fiducioso: Gesù, Signore, riposo in Te! Madre, Santa Maria, riposo in Te!”.

Davanti alle cose difficili, ripeteva: “Signore, che cosa mai vorrai concedermi, se mi chiedi tanto?”. Ebbe a commentarci una volta: desidero dirvi che spesso mi sono trovato solo fra il Cielo e la terra e ho dovuto afferrarmi alla preghiera. Ho passato molti anni aggrappato a Dio, da solo, soffrendo, ma pieno di speranza. Ho passato molti anni così: et tuus calix uberrimus, quam praeclarus est! Non dovevo rifiutare questo calice che mi veniva offerto da nostro Padre Dio”.

Non manifestò mai dubbi di fede, di perseveranza, non fu mai assalito dalla tristezza davanti alle difficoltà?

Non dubitò mai né di Dio né delle sue verità. E in esse trovò la forza per praticare la sua fede con una convinzione sempre più grande, anche quando il corpo era stanco o avvertiva la spossatezza del lavoro: “Dio – ripeteva, con parole grafiche – non può fallire”.

Mi diceva spesso che credeva profondamente nella Trinità Beatissima e a tutte le verità rivelate da Dio.

Di fronte alla tentazione della stanchezza che può fiaccare, nel 1966 si esprimeva: “mi rattrista veramente pensare che c’è chi abbandona la battaglia con la scusa della stanchezza. Comprendo che possa giungere la fatica, perché da molti anni lavoro controvoglia; ma in questi casi si parla, prima di sottrarsi al dovere. L’insistenza nell’orazione e nel lavoro, per quanto possa costare, è un’offerta che il Signore si aspetta da parte nostra. Come pure si aspetta che non cediamo alla tristezza, che non ci ritiriamo avviliti di fronte a un fallimento – una sconfitta umana, intendo – perché, se cerchiamo la sua gloria, davanti a Dio non siamo mai dei vinti. È il momento di capire che talvolta i progetti divini non coincidono con i nostri. Noi non possiamo mai essere tristi. Di fronte a un risultato avverso, deve crescere la nostra generosità, per la semplice ragione che la nostra è una vita d’amore”.

“Se cerchiamo la sua gloria, davanti a Dio non siamo mai dei vinti”

“Sulla terra” – ci diceva – “non possiamo mai avere la tranquillità dei poltroni, che si lasciano trasportare pensando di avere un futuro assicurato. L’avvenire di tutti noi è incerto, nel senso che possiamo tradire Nostro Signore, possiamo venire meno nella vocazione o abbandonare la fede. Per questo ogni giorno dobbiamo fare il proposito di lottare sempre”.

Qual’era il suo segreto per mantenersi fedele e innamorato di Dio, come lo ricordano molte persone?

Non tralasciò mai di cercare il rapporto e il dialogo fiducioso con Dio, anche nei periodi di lavoro intenso o di acute sofferenze. Un giorno del 1969, confidava a mons. Álvaro del Portillo e a me: “ieri pomeriggio ero stanchissimo e sono andato a fare l’orazione. Sono stato in oratorio dicendo al Signore: sono qui, come il cane fedele ai piedi del suo padrone; non ho la forza neppure per dirti che ti amo. Tu lo sai! Altre volte gli dico: sto qui come la sentinella nella garitta, a vigilare, a donarti tutto quello che ho, benché sia poco”.

Il Signore "vuole che gli facciamo sempre compagnia, quando fa freddo e quando fa caldo, quando stiamo bene e quando stiamo male, quando abbiamo voglia e quando non l’abbiamo; non si stanca mai di noi, né si stanca di ascoltarci; e non si rifiuterà mai di riceverci”

E ricorreva all’orazione con la certezza che Dio Nostro Signore avrebbe trasformato l’eventuale aridità in aiuto efficace per l’apostolato della Chiesa: “Egli non si attende belle frasi, preghiere altisonanti; vuole che gli facciamo sempre compagnia, quando fa freddo e quando fa caldo, quando stiamo bene e quando stiamo male, quando abbiamo voglia e quando non l’abbiamo; non si stanca mai di noi, né si stanca di ascoltarci; e non si rifiuterà mai di riceverci”.

Ebbe mai nella sua vita momenti di aridità in cui gli costava pregare Dio?

Il 26 novembre 1970 mi diceva: “ieri non sono riuscito a recitare neppure due Ave Maria di seguito. Sapessi come ne ho sofferto! Ma come sempre, per quanto mi costasse e non vi riuscissi, ho continuato a pregare: Signore, aiutami!, gli dicevo. Devi essere Tu a portare avanti le cose grandi che mi hai affidato, perché come vedi io non ho la capacità di fare neppure le cose più piccole: mi abbandono come sempre nelle tue mani”.

E nello stesso mese, si confidava ai membri del Consiglio Generale dell’Opus Dei: “sono arido, figli miei: così mi ritrovo ora. Mi sento sostenuto dal Signore, perché io sono un sacco d’immondizia. Cerco continuamente l’unione con Dio, e il Signore mi dona una grande pace e una grande serenità: ma mi sento arido nell’orazione, anche in quella vocale. Vi sono giorni in cui non riesco a fissare l’attenzione neppure su un’Ave Maria, perché mi distraggo immediatamente, ma vado avanti e continuo a lottare: non smetto mai di pregare in tutti i modi e tempi in cui devo farlo. Prego, prego sempre: mi sforzo di fare le cose con tutto l’amore, cogliendo le circostanze in cui mi trovo. In questo stesso momento faccio il proposito di recitare bene il Rosario questa sera. Ma perché vi dico queste cose? Perché sento il bisogno di comunicarvele. Mai vi ho parlato di qualcosa che possa arrecarvi danno. So che quanto vi ho appena confessato di questa mia situazione vi sarà di aiuto, perché anche voi, o qualcuno di voi, può arrivare un giorno a provare questa stessa aridità in cui ora mi ritrovo. E allora bisognerà continuare a pregare, ricorrendo all’orazione mentale e all’orazione vocale, come nei momenti in cui lo si riesce a fare con facilità”.

A Roma, 1973

Che cosa condusse il giovane Josemaría Escrivá a farsi sacerdote?

Gli sentii raccontare più volte come scaturirono i presagi della chiamata a servire Dio nel sacerdozio, quando aveva quindici o sedici anni. Sin da allora comprese con forza che Dio aveva dei progetti sulla sua vita, e la sua anima fu invasa dallo zelo soprannaturale di cercarlo, di contemplarlo, di frequentarlo, di amarlo sempre più. Riferendosi a quell’innamoramento che aveva inondato il suo essere, riconosceva con naturalezza che “si trattava del primo e unico amore”, che andava crescendo senza che egli vi si abituasse e se ne stancasse. La decisione di farsi sacerdote si basò unicamente ed esclusivamente sul desiderio di compiere la volontà del Signore, anche se in quei primi momenti quanto gli veniva chiesto non era specificato. Pensò quindi, con forte e profonda convinzione, che se fosse diventato sacerdote sarebbe stato più disponibile all’ascolto della voce di Dio.

Ricevette la chiamata con un vero ottimismo. Non entrò in seminario con una mentalità vittimistica, pensando di fare una rinuncia eroica. Non ignorava i sacrifici che comportava e sapeva che cosa significava per i suoi mettere da parte i progetti che avevano formulato sul suo futuro. Ma nessuna di queste considerazioni intralciò la sua disponibilità alla volontà di Dio.

In Spagna, ottobre del 1968. San Josemaría si sforzava di celebrare la Santa Messa ogni giorno con più devozione

Può dirci qualcosa di più sul primo e unico amore di san Josemaría?

Mi sorprendeva questo innamoramento che cresceva ogni giorno di più e che traspariva nel suo rapporto con il Signore. Si comprende allora perché affermasse di sentirsi sempre giovane, con “la gioventù di Dio”; infatti, egli riverberava l’amore ardente della persona, che non bada agli ostacoli pur di stare vicino alla persona amata. Spesso, al termine della giornata diceva a mons. Álvaro del Portillo e a me che era convinto di avere scelto il meglio e che intendeva perseverare nella donazione totale della sua povera persona, anche se ne fosse fisicamente impedito, come poi avvenne alla fine dei suoi giorni: “vi assicuro che interiormente il mio amore diviene più forte, perché non si è smorzata la convinzione che Egli si merita tutto”.

Ricorreva spesso anche a un detto spagnolo: “amor con amor se paga (l’amore si ripaga con l’amore). Lo riferiva alla necessità di essere disponibili per Iddio in ogni momento, senza cndizioni. Nel 1966 gli sentii dire: “se c’è una verità che posso affermare su me stesso, è che non ho mai fatto la mia volontà, né ciò che mi sarebbe piaciuto fare. Se fosse dipeso da me, a quest’ora sarei un avvocato, uno storico, o altro, ma certamente non un sacerdote dell’Opus Dei. E tuttavia, per il solo fatto di aver compiuto la volontà di Dio, perché così mi andava di fare, sono il più felice di tutti, avendo contraccambiato il suo amore. Io non mi sento incatenato: ho la libertà piena, completa: quella dell’Amore di Dio”.

San Josemaría dice che Dio gli fece vedere l’Opus Dei. Che significano queste parole? Ci fu un intervento divino?

Ricordo che molte volte, parlando del suo amore a Dio diceva: “queste catene divine che mi legano all’Opera, io le amo alla follia. Non voglio spezzarle e neppure scioglierle, anche se talvolta mi pesano; sono convinto che il Signore mi ha voluto interamente per Lui attraverso questa strada e questo spirito che ci ha dato”.

In un’altra occasione, commentando un testo del Libro dei Proverbi, testis fidelis non mentitur; profert autem mendacium dolosus testis (il testimone fedele non mente, quello falso spira menzogne, Proverbi 14,5), aggiungeva: “qui c’è l’efficacia della nostra vita, purché rimanga scrupolosamente fedele alla volontà di Dio. Con il nostro comportamento, con la nostra risposta fedele, diamo testimonianza, facciamo apostolato, aiutiamo gli altri nell’impresa della santificazione, secondo il cammino che il Signore ci ha tracciato”.

Dal libro: Memoria del beato Josemaría Escrivá, Javier Echevarría e Salvador Bernal, Leonardo International s.r.l., Assago (Milano) 2001.