100 anni di gratitudine (2) - Il volto di Dio nei criminali

Come si fa ad amare appassionatamente il carcere e le persone che lo abitano? Ecco la testimonianza di Lucia, Direttore di carcere. “100 anni di gratitudine” è una raccolta di testimonianze che accompagnano le Assemblee regionali dell’Opus Dei per il 2024.

Il mio lavoro professionale è quello di Direttore di carcere, ormai da 32 anni, la metà della mia esistenza terrena. Carcere, spazio e tempo di espiazione, di esecuzione della pena privativa della libertà personale, isolato dalla società libera e civile, in cui “vivono” persone che hanno commesso il male.

Come può un carcere, istituzione totale, male, essere luogo in cui santificare il lavoro, santificare con il lavoro e santificarsi per mezzo del lavoro?

Il carcere è anche e soprattutto uno spazio e un tempo in cui riconquistare la vera Libertà, quella consapevole, responsabile, attraverso percorsi di conoscenza, di consapevolezza, di revisione critica dei comportamenti, di crescita nel Bene, perché “solo la Verità rende liberi”.

“Amare il mondo appassionatamente” diceva san Josemaría: il carcere è il mondo che esprime tutta l’umanità nella sua più profonda fragilità ed ostinata miseria, ma da amare appassionatamente, incarnando quella visione soprannaturale del Cristo che ha preso su di sé il nostro peccato, per redimerci.

Un cartoncino sobrio e robusto

Non dimenticherò mai il giorno in cui ho trovato nella cassetta della posta un invito ad andare a un evento di formazione cristiana presso il centro dell’Opus Dei di Pescara. Mi ha colpito e “sedotto” l’eleganza sobria e robusta di quel cartoncino. Non sapevo che fosse stata mia figlia a dare il mio nominativo, anche se lo realizzai poco dopo, perché lei frequentava quel centro dell’Opus Dei: essere invitata proprio io, con il mio nome e cognome, al mio preciso indirizzo, è stato per me un richiamo irresistibile. In quella prima occasione sono stata accolta da Maria ed è nata un’amicizia bella, intensa, leale.

Maria ha subito voluto essere resa partecipe del mio lavoro in carcere e in talune occasioni pubbliche è stata al mio fianco. Successivamente mi ha confidato, con grande semplicità, di aver visto nel mio comportamento professionale l’essere Opus Dei e il fare Opus Dei.

Il reato come opportunità di redenzione

Durante il mio percorso di formazione nell’Opus Dei quello che sono sempre stata è diventato più evidente: fare bene il mio lavoro, vivere l’ordinario con impegno, dare valore alle relazioni, all’amicizia, cercare l’amicizia con Dio, conoscerlo, per amarlo, condividere con gli altri la sua luce. Questi sono stati anche gli insegnamenti di mia madre sin da quando ne ho memoria.

Anche la scelta del mio lavoro si è generata in me da giovanissima età; ho sempre voluto fare il Direttore di carcere: tutto il mio percorso di studi e le mie esperienze di volontariato e poi, di lavoro, sono andate in quella direzione.

Il carcere è una realtà talmente complessa che è impensabile dirigerla bene e al Bene, se non in unione a Dio; è una realtà in cui il lavoro fatto bene diventa “servizio” reso non solo alle persone detenute, ma alla comunità tutta: un servizio consistente nel voler sempre, e sempre trasformare il male in bene, sfruttare il reato come opportunità di redenzione, per passare dalla disperazione alla speranza, mutando le ferite in “feritoie” attraverso le quali illuminare l’esistenza.

Se tutto finisse con la commissione del reato e l’attribuzione della pena, il male avrebbe avuto il sopravvento. Ma non è così: in ciascun uomo alberga il bene, che è infinitamente più forte del male, a patto che lo si voglia vedere e si abbia la forza - le risorse personali, spirituali, sociali - di portarlo alla luce.

Cosa fa un Direttore di carcere?

Il Direttore di carcere dirige e organizza una vera e propria comunità: persone, risorse materiali, risorse finanziarie, edifici, arredi, processi di lavoro, servizi, sicurezza, eccetera.

Ma, soprattutto, al direttore del carcere è affidata la vita detentiva delle persone detenute e il riconoscimento dei loro diritti di persone, il rispetto della loro dignità umana, che non può essere cancellata dalla detenzione.

Questo significa avere la responsabilità di gestire e organizzare la quotidianità dei detenuti, la relazione rieducativa, l’affettività, i contatti con le famiglie, le telefonate, il lavoro interno, l’osservazione scientifica della personalità in vista del reinserimento, la sicurezza interna e della comunità esterna, la gestione delle procedure giudiziarie, sociali, criminologiche, rieducative in genere.

Nella mia esperienza, il proprium, il cuore del lavoro del direttore di carcere in tutto questo oceano di compiti consiste nell’attivare risorse, accendere la speranza e seminare, con tutti i collaboratori, in un contesto sereno e ben ordinato e organizzato, cercando di far emergere il Bene che è in ciascuno, con pazienza e senza arrendersi, accettando anche le apparenti sconfitte e le tante frustrazioni, ma credendo fermamente che l’uomo è immagine e somiglianza di Dio e che quindi il cambiamento deve consistere nel “diventare ciò che si è”.

La somiglianza di Dio nei peggiori criminali

Ricevo molti messaggi da ex detenuti, uomini liberi che mi dicono di non aver dimenticato la mia testimonianza di amore per l’umanità persa. Non mancano anche messaggi di persone che sono tornate in carcere, e che, anche se hanno sbagliato ancora e ancora, conservano dentro di loro la speranza che la loro sia una nuova caduta, ma in ginocchio, in segno di preghiera, per rialzarsi un giorno definitivamente e camminare nel Bene.

Un giorno - mia figlia aveva sette anni - la portai al lavoro con me. Mentre tornavamo a casa, mi disse: “Mamma, è molto bello il tuo lavoro! Non hai fatto altro che incontrare tante persone e parlare con tutte; e poi, scrivevi, scrivevi, quello che dicevi”.

Quello che mi stupisce sempre nel mio lavoro, è vedere quanta sensibilità, forza, coraggio, audacia, determinazione, dolcezza, carità, generosità, in una parola quanta bella umanità immagine e somiglianza di Dio possa esserci anche nei peggiori criminali. Questo perché la persona è unità, in tutti albergano grano e zizzania e spesso non si può estirpare l’una, senza danneggiare anche l’altro, ma, poi, la vita interviene duramente, con forti azioni di “potatura” e allora, con grande cura, è possibile che nuova vita germogli.

Un uomo finalmente libero, in carcere

Qualche giorno fa, ho ricevuto la telefonata di un detenuto in permesso premio. Il Magistrato gli aveva concesso alcune ore di libertà, per portare in scena un lavoro teatrale, unitamente al Direttore artistico della Compagnia teatrale che avevamo fondato all’interno del carcere; il lavoro teatrale consisteva nella messa in scena della sua vita, dal male, all’espiazione, al riscatto.

Francesco - questo il nome del detenuto - aveva tanto insistito con il Direttore artistico per chiamarmi prima di andare in scena, perché voleva ringraziarmi. Sembra il dialogo di un film dal finale edificante, ma è il frutto di aver provato ad amare appassionatamente il carcere:

“Dottoressa, devo a lei se ora sono un uomo libero”.

“Francesco, non ti allargare! Non sei ancora libero. Sei un detenuto in permesso premio”.

“Dottoressa, quando mi ritenevo libero, prima dell’arresto, in realtà ero schiavo, schiavo di me stesso, del male, delle mie passioni; non era libertà quella; in carcere ho guadagnato la vera libertà, quella di valutare le conseguenze delle mie azioni, di allenarmi a scegliere il bene, di impegnarmi e lottare per agire bene, con la pace nel cuore, partendo dalle piccole cose e trasformandole in grandi vittorie del Bene sul male”.

“Molto bene, Francesco, ringraziamo Dio e i tuoi familiari che ti sono stati accanto, e anche te stesso! Io non c’entro!”

“No, Dottoressa, lei ha visto in me oltre il reato, oltre il peccato, ha visto il mio essere figlio di Dio; ma non a parole, con i fatti, con le azioni di ogni giorno, con azioni che avevano il sapore della Verità, attraverso le piccole cose di ogni giorno”.

Qual è il lavoro di un direttore di carcere?

Avere visione soprannaturale nella quotidianità, essere contemplativo nel mondo, trasformare l’ordinario in straordinario, rendendosi strumento di Dio!


“100 anni di gratitudine” è una raccolta di testimonianze che accompagnano le Assemblee regionali dell’Opus Dei per il 2024. Clicca qui per leggere le testimonianze pubblicate finora, o per approfondire i temi delle Assemblee regionali.