Il «Codice» di Dan Brown, falso fatto di brutte favole

Il bestseller avvince, ma rimescola un sacco di invenzioni su cui da tempo s’è fatta luce. Eppure nulla scalfisce un mito di cattivo gusto.

Il mondo è pieno di bei miti e di belle favole. Non saranno cose vere, d’accordo: ma hanno un significato profondo, ti riscaldano dentro: è un vero peccato che con tante belle cose che ci sarebbero da leggere e da imparare la gente – in genere vittima della disonestà e dell’ignoranza dei padroni dei mass media – corra dietro a indegne paccottiglie.

Prendiamo il romanzo giallo Il codice Da Vinci di Dan Brown. È un successo annunziato: centinaia di migliaia di copie vendute negli Stati Uniti, da noi la Sony già pronta a tirarci fuori un film che sarà anch’esso di cassetta. Chi se ne frega se è una velenosa porcheria? Intendiamoci: di per sé, non sarebbe nemmeno male. Il taglio e il ritmo avvincono; le conoscenze dell’autore, che si muove bene fra i tesori del Louvre che gli servono da sfondo, riescono a conquistarti. Ma il nucleo del messaggio è infame: una Chiesa cattolica descritta come si usava nei romanzacci anticlericali dell’Ottocento; un’Opus Dei che diventa una società segreta di complottatori da operetta; e, infine, la riesumazione d’una vecchia balla. Quella dei «misteri» di Rennes-le-Château, dei quali davvero non se ne può più.

Ma può darsi che qualcuno non ne sappia nulla e ci caschi. Come ci cascano le migliaia di turisti che ormai da anni affollano il paesello pirenaico dove gente che magari non ha mai sentito il bisogno di visitare la cattedrale di Chartres fa poi centinaia di chilometri per incantarsi davanti a una chiesuccia kitsch e a una brutta torricella in stile neogotico, ritenute le chiavi d’un gran mistero esoterico. Ed ecco i fatti. Fra 1885 e 1917 visse a Rennes-le-Château uno strano tipo di prete (nel 1910 sospeso a divinis), Berenger Saunière, che a un certo punto disponeva d’una certa quantità di danaro di misteriosa origine e che si dette a strani scavi e a un’ancor più strana attività edilizia. Attorno a lui nacque una singolare fama: egli avrebbe scoperto dei tesori e dei preziosi documenti. Presto cominciarono a spuntare le indiscrezioni. Aveva trovato, naturalmente, il tesoro dei catari o forse dei templari; di più: aveva messo le mani sul loro grande segreto, ovviamente il Graal. Che però non era la coppa dell’Ultima Cena, bensì il simbolo d’una figura femminile. Nientemeno che Maria Maddalena, che avrebbe sposato Gesù (a sua volta scampato alla crocifissione) e dall’unione con il quale avrebbe partorito la progenie del Saint-Graal, cioè del Sang Réal, il «Sangue Regale». Difatti dall’unione di Gesù con la Maddalena sarebbero nati i primi re di Francia, i merovingi. E il Saunière si sarebbe arricchito anche ricattando la Chiesa con la minaccia di rivelare il segreto.

La storiella fu messa insieme negli Anni Cinquanta da un faccendiere locale, Noël Corbu; trovò poi un divulgatore fortunato e non privo di qualità di scrittore, Gérard de Sède, il quale nel 1967 pubblicò un volume, L’or de Rennes, nel quale narrava l’intera storia abilmente mischiando fatti,ipotesi e invenzioni. Intanto nella Bibliothèque Nationale di Parigi si era scoperto un dossier di documenti riguardanti il Saunière: peccato però che fossero tutti falsi, surrettiziamente introdotti nell’istituto parigino: la cosa è risaputa, ma i media continuano a far finta di niente.

Su tutto quest’intrico di brutte favole si è fatta da tempo piena luce, anche se la questione dei proventi del Saunière resta da accertare. Ma gazzettieri e televisionari continuano a impestarci con queste ridicole storie. E le prove documentarie, la filologia, le denunzie per falso, nulla scalfisce questo monumento all’imbecillità e al cattivo gusto.

Franco Cardini // Avvenire